Domani non comprerò il Corriere della Sera. Ma non
c'è niente di strano, non è che io lo compri così spesso. Ecco,
magari la domenica sì, e domani avrei anche potuto comprarlo. Lo
sapete che sull'inserto La Lettura (bello eh, ma a volte un po'
pesantuccio ed elitario) ci sarà un articolo di Fabio Volo, vero?
Ecco.
Quindi faccio l'unica cosa sensata a fronte di un
miliardo di discorsi, tweet, post, status e sticazzi vari che hanno
scatenato l'inferno negli ultimi giorni. Esercito il mio potere di
umile consumatore nei confronti di un prodotto.
E non voglio che si ripeta la tiritera che se uno
non apprezza Fabio Volo è snob, invidioso, misantropo, fuori dalla
realtà, cattivo, sordocieco, etc etc... Sono curioso di vedere cosa
sarà pubblicato domani e sarò persino felice di leggerlo, ma non
pagherò per poterlo fare. Poi, forse, neppure mi unirò alle “mille
voci al sonito” di manzoniana memoria.
Certo, è curioso. Insomma, sullo spazio culturale
del Corriere hanno scritto persone del calibro di Pasolini,
D'Annunzio, Sciascia, Maraini, giusto per dirne quattro. La Lettura ha
garbatamente assegnato un sei e mezzo in pagella all'ultimo libro di
Volo (come allo studente duro di comprendonio ma che si applica, con
incentivo a fare di meglio) in modo da mettere le mani avanti,
andando a scomodare e impallinare in modo inclemente la prosa di
Mazzantini, De Luca e Carofiglio facendola apparire come arzigogolata
e farraginosa, giusto per esaltare la scrittura da uomo della strada
del nuovo acquisto.
Frase cult: “Preferirei Fabio Volo”.
Ecco, io no.
Io il Corriere della Sera, per questo, non lo
compro. Punto.
Il successo e il valore non sono la stessa cosa. Il
successo non perdona, il successo non ti fa perdonare e spesso è
imperdonabile che vada a colpire persino il pubblico, o almeno la sua
parte “orgogliosa di essere cultura” che sa riconoscere la statura di
un'opera e di un autore. Certo, stiamo parlando in questo caso di un
successo di pancia e non di cervello (direi che su questo pochi
possano dissentire), ma sempre lì si va a finire: si scambia il
successo per il valore assoluto del prodotto. Un libro, una storia,
un racconto, non devono per forza parlare a centinaia di migliaia di
persone per essere degni di nota. Se il marketing sopperisce al
riconoscimento del valore, il gioco è abbastanza scoperto e facile
da smascherare per chiunque abbia un po' di cervello.
Aggiungo però un'altra cosa, come esempio lampante della
'condanna' per via del successo commerciale, dove non dobbiamo andare
a finire “noi della cultura”. Fa notizia (adesso!) il
boicottaggio (adesso!) da parte di un bel gruppetto di gruppi
organizzati di studenti universitari inglesi della canzone Blurred
Lines (eddaje) di Robin Thicke. Dopo 8 mesi dal lancio del singolo e
un successo planetario di dimensioni – e dollaroni – enormi. Dopo
che da marzo 2013 studenti e studentesse di ogni lingua, estrazione
sociale e convinzione politico/etico/sociale se la sono ballata e
canticchiata ovunque, nel 99% per cento dei casi fregandosene del
testo (che, detto tra noi, è una stronzata giocosa da morti di figa
ed è sempre meglio delle liriche patetiche di Vasco Rossi che sembra
sempre cercare di rimorchiare un'adolescente). Ha senso? Il testo è
davvero così misogino? Il video talmente offensivo da generare anche
cloni ulteriormente, involontariamente offensivi per la causa che
difendono? E allora a quasi tutti i rapper americani e nostrani che cosa
dovremmo fare, la castrazione chimica per oltraggio reiterato e
compiaciuto all'intero genere femminile da quando esiste il genere?
Il successo non perdona, ma almeno di Robin Thicke
non dicono che è il nuovo Stewie Wonder...
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