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venerdì 25 luglio 2014

Expendables piratati e sacrificabili al boxoffice? Dipende da te

189 mila download in meno di 24 ore.
Sarebbe un bel successo, se si trattasse di qualcosa di legale. E invece stiamo parlando di un film non ancora ufficialmente uscito: The Expendables 3, il nuovo capitolo della saga action firmata da Sylvester Stallone, che riporta sullo schermo vecchie glorie e nuove leve del genere reso cult dalle pellicole degli anni '80.

Non giriamoci intorno: a meno di un mese dalla premiere ufficiale del film, la circolazione di una copia pirata in qualità DVD e questi numeri fanno cadere le braccia.

Ci ritroviamo di fronte ad un dilemma, e stavolta senza la foglia di fico del cinema d'autore che circola poco: chi attenderà un mese per vederselo sul grande schermo? Quanti, invece, preferiranno la comoda e gratuita visione sullo schermo del pc?

Un film d'azione del genere vive dell'incasso in sala dovuto alla "nicchia" di appassionati che, guarda caso, in gran parte (uomini, giovani) ricade nei grandi utilizzatori del download illegale. La frittata è (potenzialmente) fatta.

Il precedente a cui si può fare riferimento è “X-Men - Le Origini: Wolverine” che fu scaricato da 15 milioni di persone un mese prima dell'uscita nei cinema e incassò molto meno di quanto avrebbe potuto (vabbè, era pure un pessimo film...). Se vi consola, colui che uploadò il file pirata è finito in carcere e Megaupload, beh, sappiamo com'è finita.

Adesso, i cosiddetti amanti del cinema, del genere action, dell'arte e dei vecchi miti gloriosi degli anni '80 sono chiamati ad una scelta di campo. Affossare i propri beniamini o sostenerli fino alla fine, scaricare o vedere in sala, stare comodi o sostenere il (tanto amato?) cinema.

giovedì 17 luglio 2014

Il web, il progresso e i cadaveri della middle-class

Jaron Lanier
Il web è democrazia, libertà, rivoluzione?
Questo è certo, come è certo che la costruzione del futuro, anche via web, passa attraverso alcuni cadaveri molto reali.


Andiamo con ordine: dopo aver parlato (grazie allo spunto di un bel docufilm) di come l'impoverimento della classe media ci abbia portato al deprimente stato di cose in cui viviamo, mi sono imbattuto in un gran bell'articolo a firma Riccardo Staglianò dove a prendere la parola è niente meno che uno dei guru e dei profeti del web e della realtà virtuale, quel poliedrico Jaron Lanier che spazia dalla musica alla programmazione alla profezia di ciò che sarà come niente fosse.

E' un bel pezzo di giornalismo, e merita di essere letto da cima a fondo. Alcuni concetti espressi da Lanier sono di una semplicità e di una concretezza disarmante:
«Ci piace la musica gratis, ma poi gridiamo allo scandalo per l’orchestrale nostro amico che non ha più fondi. Ci eccitiamo per i prezzi online stracciati, e poi piangiamo per l’ennesima serranda abbassata. Ci piacciono anche le notizie a costo zero, e poi rimpiangiamo i bei tempi in cui i giornali erano in salute. Siamo felicissimi dei nostri (apparenti) buoni affari, ma alla fine ci renderemo conto che stiamo dilapidando il nostro valore»



Lavoratori (del/sul) web
Niente di più vero. Riflessioni forse ridondanti per chi è abituato ad analizzare la realtà e vedere i cambiamenti in atto, ma alla stragrande maggioranza delle persone questa consapevolezza ancora manca. Soprattutto perché il mercato (ma quale, ormai?) spinge in una direzione strana, e i consumatori - se ancora possiamo chiamarli tali - si sono adagiati su un sistema dove tutto o quasi si può trovare gratis e a prezzi stracciati, uccidendo in un passaggio traumatico quel poco di classe media e piccola imprenditoria rimasta.

La rivoluzione digitale, sia benedetta e/o maledetta, sta lasciando da anni e con sempre maggiore frequenza una scia di morti nel suo galoppo, e per ogni Kindle chiudono due librerie, lo sappiamo. Per ogni brano scaricato musicisti non affermati annegano nell'indigenza. E così via.


Over(social)flow
Non solo offline: anche sulla rete chi sta in mezzo muore, chi non impegna le sue giornate ad essere "qualcuno" è tagliato fuori dal giro che conta e dal mercato che si sta sviluppando. I mezzi sono diversi ma la logica è la stessa, declinata ad un individualismo-egocentrismo (personal branding o corporate marketing che sia) dove le regole sono più subdole ma la sostanza è la stessa: emergere, vincere sulla concorrenza, fare affari.


Driveless car
Ma non è che un singolo aspetto nel mare della vita reale e del quotidiano. Pensiamo a lavori del settore "servizi" come quelli del traduttore, con Skype che annuncia la traduzioni in tempo reale della conversazioni. Del tassista, con le driveless car alle porte. Del commercialista, minacciato da sistemi automatici sempre più precisi che calcolano perfettamente cifre e importi.

Lascio la chiosa ancora a Lanier:
«Per quanto faccia male dirlo, potremo anche sopravvivere distruggendo solo la classe media composta da musicisti, giornalisti e fotografi. Ciò che non è sostenibile è la distruzione di quella che lavora nei trasporti, nella manifattura, nel settore energetico, nell’educazione e nella sanità, oltre che nel terziario. E una tale distruzione accadrà, a meno che le idee dominanti sull’economia dell’informazione non facciano dei passi avanti»

Se ti va, puoi leggere anche:
- La classe media? E' stata uccisa...
- Anche il giornalismo si delocalizza. In Albania.
- Carenza di onestà (ed eccesso di informazione)

martedì 15 luglio 2014

La classe media uccisa dalla finanza (e dal web)

Parlare di economia non è mai semplice. È un argomento importante che spesso spaventa il pubblico. Pensate allora quando il giovane regista Robert Kornbluth è andato in giro cercando finanziamenti per un documentario sulla progressiva sparizione della classe media e l'inasprirsi delle disuguaglianze sociali in America.

Alla fine c'è riuscito con il crowdfunding e con qualche sponsor (tra cui, di sicuro, Mini-BMW) e il lavoro è eccellente. Un film (Inequality for all) la cui visione è consigliata a tutti: rappresenta un saggio di chiarezza espositiva, leggerezza istruttiva nel trattare temi complessi e importanti e, non ultimo, lancia un messaggio positivo non facendo del catastrofismo ma invitando a riflettere. Il successo meritato è arrivato dal Sundance Festival e da moltissima stampa internazionale.

A farci da cicerone in questo breve ma utile viaggio è Robert Reich, brillante professore dell'Università di Berkley in California ed ex ministro del Lavoro nel primo mandato presidenziale di Bill Clinton (amministrazione controversa ma che sotto il profilo del welfare operò bene). Con umiltà, (auto)ironia e intelligenza, Reich – autore del libro che ha ispirato il film - ci spiega in modo sereno cosa è accaduto per ritrovarci a vivere peggio di come stavamo 40 anni fa... tutti tranne l'1% della popolazione.

L'esempio americano non è per niente distante dalla realtà dei Paesi europei, e anche del nostro. Alla fine del dopoguerra e del boom economico, è accaduto qualcosa. Dalla fine degli anni '70, gli stipendi del ceto medio si sono livellati e non sono cresciuti in proporzione al costo della vita in salita costante. Abbiamo assistito a globalizzazione, delocalizzazione, deregulation, meccanizzazione del lavoro.
Il divario sociale si è invece ampliato, da una parte favorendo una minoranza di ricchissimi (a cui le tasse sono state tagliate), dall'altra andando a penalizzare quello che da sempre è stato il propulsore dell'economia mondiale, il grosso dei lavoratori e la loro capacità di spesa.

Non sono i ricchi a produrre posti di lavoro. E' la maggioranza della popolazione, la classe media, attraverso i suoi acquisti, a far girare l'economia, a sostenere la produzione di beni di consumo e quindi a gettare i presupposti per l'imprenditoria e la creazione dei posti di lavoro necessari.

Un equilibrio ben esemplificato nella pellicola, attraverso un chiaro schema che illustra un circolo virtuoso: stipendi adeguati - consumi che salgono – assunzioni - maggiore gettito fiscale - più investimenti pubblici - lavoratori più istruiti - economia in crescita - produttività maggiore.
Mettete a tutti questi fattori il segno opposto, e vedrete la situazione che viviamo da ormai troppo tempo.

Ogni punto meriterebbe un approfondimento, ma basta rilevare come, attraverso i decenni, in alcuni Paesi mondiali una popolazione più istruita ha saputo generare un mercato del lavoro migliore e una capacità dell'individuo di trovare o creare nuovi impieghi. Dunque una società che ha saputo far fronte in modo migliore alla “crisi” che ha investito il mondo negli ultimi anni.

L'ultima parte della pellicola, pur senza catastrofismi, solleva un'importante domanda: come può la politica svolgere serenamente il suo ruolo di soggetto che dovrebbe tutelare tutti i cittadini e in particolare i più esposti ai rischi economici, se ogni anno che passa è sempre più bisognosa lei stessa di soldi e di “appoggi” di ricchi magnati? La realtà delle campagne elettorali americane è lampante, ma anche in Italia, da Berlusconi e Renzi, questo fenomeno è sempre più tangibile.
Il rischio è che la tutela della classe media, dei lavoratori, degli stipendi e delle fasce deboli si riduca soltanto a slogan e a poche, piccole, elemosine.


Ci sono poi le responsabilità del web e del progresso tecnologico, ma di queste parleremo in un prossimo post.

sabato 12 luglio 2014

Tutto ciò che cerchi su Google potrà essere usato contro di te

E se Google avesse un grande archivio dove conserva ogni singola ricerca che abbiamo effettuato?
Se, a richiesta, Big G acconsentisse tranquillamente a fornire tutte le parole che avete inserito nel motore di ricerca e il contenuto delle vostre mail ad autorità che vorrebbero “preventivamente” evitare qualche potenziale illecito, vi sentireste tranquilli?

Questa realtà (perché di realtà si tratta) e molto altro materiale inquietante è il punto di partenza di Terms and Conditions may apply, un documentario del regista americano Cullen Hoback
Il film ci mostra cosa accade ogni volta che schiacciamo a cuor leggero il fatidico pulsante “Accetta” senza dare troppa importanza al fiume di testo che precede la creazione di profili, l'utilizzo di app, la registrazione a servizi e via dicendo.

La privacy è morta?
Fortunatamente il doc non utilizza toni apocalittici (uno dei principali difetti di molte opere cinematografiche “di denuncia”) e Hoback tende a usare un registro leggero e paradossale, sebbene i suoi intervistati siano abbastanza sicuri quando affermano che il progresso ha reso totalmente trasparente la nostra sfera privata grazie ad internet. E spesso, con il nostro consenso e contributo.
Il caso più eclatante sono i social network, una vera e propria benedizione per gli spioni di professione. 
E' incredibile quanto la gente, adesso, sembri fare a gara per fornire più informazioni possibili sulla propria vita e su cosa faccia ogni singolo minuto della giornata”, dice qualcuno a un certo punto, e tu inizi quasi automaticamente a ripercorrere con la mente i tuoi status e i tuoi post

In pratica, ci stiamo consegnando ad un Grande Fratello che sta imparando a fare a meno delle telecamere (ma non preoccupatevi, si stanno moltiplicando anche quelle). Un Big Brother che vuol farti vivere libero ma monitorato, auto-denunciando ogni tuo gusto, spostamento, cambiamento di vita.
Libertà dai confini sempre più ristretti, che può vedere le forze dell'ordine compiere aberrazioni – come arresti “cautelativi” di pacifici dimostranti o artisti di strada nei giorni di eventi ad altro rischio – o vendette occulte, vedi la vicenda dell'ex capo della CIA David Petraeus, incastrato dalle “intercettazioni” su Gmail delle conversazioni tra lui e l'amante. Mail che erano salvate in bozza, quindi neppure spedite.

C'è di che sentirsi un po' paranoici, se nell'Unione Europea non fossimo in effetti un po' più tutelati rispetto ai democratici USA, e di recente abbiamo pure (faticosamente) acquisito quel diritto all'oblio invocato per tanto tempo (un discorso a parte e da subito dibattutissimo).
Ma se chiedi a Google di fornirti uno stampato di tutte le tue attività online, beh, ci metterà un po' e te lo farà avere. Incluse le ricerche imbarazzanti su gattini rosa e abitudini sessuali delle Sule dai piedi azzurri delle Galapagos (per citare i casi migliori). 
Basterà qualche freno legale a garantire il rispetto totale della privacy degli utenti?
Le aziende rinunceranno mai alla compravendita dei dati personali, che sembra essere la nuova miniera d'oro del commercio?
E siamo sicuri che nessuno registri e conservi ugualmente ogni nostra mossa sul web?

Il film, visti i tempi di lavorazione, termina prima del caso Snowden, aggiunto all'ultimo tuffo sui titoli di coda. Ma c'è di che meditare...

mercoledì 9 luglio 2014

I Pirati di Silicon Valley, quindici anni dopo

Prima di The Social Network, c'era I Pirati di Silicon Valley.
Prima di Facebook, cioè, si è parlato di come sono nate le macchine sulle quali lo utilizziamo.

O meglio, delle due persone che hanno reso possibile la rivoluzione che ha portato un pc in ogni casa e sistemi operativi intuitivi (e poi laptop, netbook, smartphone, tablet...): Steve Jobs e Bill Gates.

Jobs, passato a miglior vita, è di certo un personaggio più narrativamente attraente. Genio sregolato, ex-hippie e fruttariano, grande oratore e carismatico, umorale e maleducato. Gates, da sempre più schivo e riservato, ha comunque una personalità non trascurabile (e un caratterino niente male).

I Pirati di Silicon Valley è un film-tv del giornalista e regista Martyn Burke datato 1999 che, con tutti i limiti da film-tv, affronta di petto senza timori una storia molto recente e controversa. La storia della “conquista” del mondo dei personal computer da parte di due giovani rampanti, tra gli anni '70 e gli '80 del Novecento.

Un film strutturato molto bene, anche se non girato benissimo, sia per ritmo che per scelte narrative. Tra dissolvenze invadenti e spunti ottimi lasciati cadere nel vuoto, c'è però un coraggio quasi incosciente nel tratteggiare un anti-ritratto di due delle icone degli ultimi quarant'anni e numi tutelari del “pc su ogni scrivania”, Steve Jobs e Bill Gates.

Con le dovute licenze da romanzo e gli ovvi limiti della semplificazione, c'è però una buona resa della personalità complessa e scorbutica di Jobs, ossessionato dall'idea di essere l'artista che dipinge il futuro dei computer, e l'antipatico pragmatismo di Gates.

Due giovani molto simili in molte cose: il talento, informatico (Gates) e visionario (Jobs), l'assenza di scrupoli, la volontà di abbattere il sistema dominato da giganti preistorici che non guarda in faccia niente e nessuno, tanto meno l'etica e l'onestà. Alle capacità personali si sommano infatti la bugia, l'arrivismo e il furto delle idee altrui.

Il film, tratto dal libro "Fire in the Valley" di Paul Freiberger e Michael Swaine, è spesso rozzo e schematico ma efficace: restituisce la figura di due personaggi speculari, opposti e complementari. Sommando fatti documentati a leggende metropolitane (non, però, così distanti dalla realtà) ricostruisce in modo efficace un periodo cruciale della nostra storia moderna.

Nessuno esce bene da questa pellicola. Jobs e Gates hanno sì rivoluzionato per sempre la nostra vita, il mondo della tecnologia, del marketing e dell'impresa, ma sono anche persone che hanno piegato il mondo e le persone ai propri scopi, rubando idee e tentando di distruggersi a vicenda. Niente di cui scandalizzarsi, sia chiaro: la base del progresso è spazzare via chi non “vede” il futuro e l'utilità degli strumenti che ha sotto il naso (e magari inventato). Vince chi sa cambiare, osare, prendere dei rischi, anche a spese altrui.

Aneddoti spettacolari e veri: il dirigente della HP che dice a Steve Wozniak, socio di Jobs (rifiutando il progetto del Mac-1): “Ma cosa se ne fa la gente di un pc a casa?” e la storica riunione di Gates con il colosso IBM, dove costruì la sua fortuna vendendo un sistema operativo che ancora non aveva (il DOS, acquistato dalla sua Microsoft a due spicci da un altro produttore) e mantenendone la proprietà, concedendolo in licenza.
Persino la IBM pensava che i soldi arrivassero solo dai pc, e non dal software... un po' come quando Lucas gettò le basi del suo impero andando oltre il cinema e assicurandosi i proventi del marchandising alla faccia della 20th Century Fox.

Certo, ai Pirati della Silicon Valley adesso servirebbe un sequel su cosa è successo (ed è successo moltissimo!) dopo il 1999. Anche se in realtà il film si ferma dopo il 1985, e riassume il resto in 3 didascalie negli ultimi 30 secondi...

Due parole sugli interpreti: Noah Wyle è un ottimo Steve Jobs, lodato persino dal papà di Apple che pure odiò il film. Jobs chiamò addirittura Wyle a introdurre, vestito come lui, la conferenza del MacWorld 1999.


Anthony Michael Hall è un odioso Bill Gates, ingobbito e introverso, anche lui molto bravo. Due prove di attori che sostengono e danno un valore maggiore a questa opera.


Puoi leggere anche:
- Halt and catch fire, la serie tv sullo sviluppo dei pc negli anni '80
- La prima stagione di House of Cards
- Il social marketing applicato al Mondiale

giovedì 12 giugno 2014

A Hard Day's Night, i Beatles e il cinema che inventa il videoclip

I Fab Four... Tutti per uno, come il titolo che all'epoca (correva il 1964) fu affibbiato in Italia alla prima pellicola dei Beatles.
Beatles che, all'interno di A Hard Day's Night, anarchico film del bravissimo regista Richard Lester, non vengono mai chiamati Beatles.

Se c'è un grande merito da riconoscere alla regia di Lester - che aveva 32 anni, una decina in più dei suoi protagonisti - è quella di essere assolutamente in anticipo sui tempi, frenetica ma sempre puntuale, precisa e anarchica, come il ritmo stesso della pellicola.

In pratica, Lester ha inventato con il cinema il linguaggio dei videoclip del futuro. Vedere per credere: tutto quello che è venuto prima (e moltissimo di ciò che seguirà) sembra paleolitico e ammuffito.

Grazie al montaggio dell'abile John Frenzy Jympson, il regista si sbizzarrisce in inquadrature sbilenche, dettagli in primissimo piano, salti logici, giochi con il fuoco, immagini che durano lo spazio di un battito di ciglia. Muore la noia e nasce uno stile.




Il resto è storia: pellicola con trama esile, collage di gag, che documenta e certifica la nascita della Beatlemania, che sfrutta narrativamente una trasferta londinese per un concerto, dopo il primo tour americano della band. A Hard Day's Night è anche un film girato in piena libertà ma scritto benissimo (da Alun Owen), con battute fulminanti e un uso dell'improvvisazione eccellente. Senza contare il bianco e nero più che mai brillante di Gilbert Taylor, che avrebbe poi lavorato con i più grandi registi dell'epoca.

Snobbato dalla critica, fu un clamoroso successo al botteghino (costo: mezzo milione di sterline, incasso: dodici milioni) e conquisto due nomination agli Oscar, senza contare l'acquisizione dello status di cult
E poi, beh, è un film dei Beatles.

Fab Four sono perfettamente a loro agio, anche se Paul si dimostra al solito il più smaliziato. Lennon gioca al ruolo dell'anticonformista sognante e sopra le righe, George è il bravo ragazzo con la testa tra le nuvole e Ringo... è Ringo, sorridente, positivo, malinconico all'occorrenza. Bravissimo anche il cast di supporto di veri attori, tra cui il terribile "nonno di Paul" irlandese, irriverente, pronto a insultare i poliziotti, seminare zizzania nel gruppo e frodare le fan dei loro amici (Wilfrid Brambell).


Ma tantissime scene sono da antologia: oltre ad alcuni siparietti nonsense e surreali, da citare almeno la scena in cui George viene scambiato per un suo sosia e introdotto da un produttore senza scrupoli che vuole usarlo come testimonial per convincere i ragazzi a comprare delle camicie orrende. Quando il losco figuro cita una sua collaboratrice e beniamina, una che di lavoro fa la trendsetter (non vi suona già nelle orecchie fashion blogger?) George risponde: ma noi quella la prendiamo per i fondelli, è noiosa, è falsa. Stavo per commuovermi in sala: all'epoca gli idoli pop potevano permettersi - almeno sullo schermo - di criticare quello che i loro omologhi sono costretti a fare, cinquan'tanni dopo.



Infine, vedere i ragazzi di Liverpool giocare a quattro cantoni sulle note di Can't buy me love regala allo spettatore di oggi quella
consapevolezza dolceamara di un'innocenza ad un passo dal perdersi del tutto: era sul pianerottolo un successo incontrastabile che avrebbe cambiato ogni cosa.

Le canzoni del film: A Hard Day's Night, I Should Have Known Better, If I Fell, I'm Happy Just to Dance with You, And I Love Her, Tell Me Why, Can't Buy Me Love, I Wanna Be Your Man, Don't Bother Me, All My Loving, Ringo's Theme (This Boy) e She Loves You.  

domenica 18 maggio 2014

Godzilla, un film con la star molto timida

Questa non sarà una recensione lunga e articolata, perchè Godzilla risulta essere un blockbuster senza troppe pretese che mira “solo” a intrattenere, nonostante la nobile discendenza e la ricorrenza dei 60 anni del mostro giapponese creato da Ishiro Honda.
Andiamo subito a quello che è, a mio avviso, l'aspetto più discutibile.
Il problema è che Godzilla è il personaggio che compare meno nel film.
Meno di Bryan Cranston. Meno di Aaron Taylor-Johnson e Elizabeth Olsen. Meno di Ken Watanabe e qualsiasi altro attore del film (a parte Juliette Binoche, ma sfido io).
Meno, e qui siamo al paradosso, dei mostri cattivi.
Ora, non è che uno volesse un film intero su Godzilla che arriva e distrugge una città a caso (comunque, perchè no?), però almeno una bella scena tamarra di un quarto d'ora con un combattimento all'ultimo sangue non ci avrebbe fatto schifo, credo.
E invece, nisba.
Ok che Gareth Edwards, il regista, è diventato famoso per Monsters, dove dei mostri non si vedeva neppure l'ombra o quasi, ma qualcuno doveva dire alla produzione che in questo caso IL FILM E' IL MOSTRO!
Per essere un simil-reboot non mette neppure troppa enfasi nel costruire un'aura mitica al nostro beneamato Godzilla. Quasi tutti gli sforzi tesi a creare aspettativa (tanti dialoghi, e poi la regia non fa altro che negarcene la visione intera) smorzano la tensione e inquadrano didascalicamente la creatura come un riequilibratore divino.
Nella visione di questa pellicola, noi umani siamo gli idioti che rovinano il pianeta e dobbiamo essere noi in qualche modo rimettere le cose a posto (come? Ma evitando di far esplodere una bomba che noi stessi abbiamo piazzato e che 99 su 100 non sarebbe servita a niente!).
Trovate sciocca la frase precedente?
Perchè è ovviamente sciocca.
Godzilla salva il mondo e anche i bambini dai missili lanciati dai miliari, i quali, attraverso il protagonista Ford Brody (ma che nome è?) restano sempre al centro del film e mai per un momento vengono messi in discussione, neppure nelle scelte cretine che fanno. A meno che il broncio triste di Ken Watanabe non sia una critica.
Alla fine della fiera, è tutto molto bello e professionale, però – purtroppo – da spettatore che si è visto quasi tutti i film della serie, mi ritrovo quasi a preferire i pupazzoni gommosi che si riempiono di legnate trash per metà pellicola.
Per il pubblico generalista, Godzilla 2014 è un film solido ma che non raggiunge nemmeno per un momento lo stupore e il coinvolgimento di un Jurassic Park o il divertimento di un Pacific Rim. Detto questo, lo spettacolo c'è, le scene grandiose e di impatto pure. Resta l'amaro in bocca perchè avrebbe potuto essere molto più.
A quanto pare in USA l'apertura è andata benone (la migliore dell'anno finora) e anche in Italia il risultato è buono.

Resisterà sul lungo termine? Mah. Non è memorabile, e il fatto che sia già annunciato un sequel non so se costituisca un bene o un male...

Sei mostruosamente curioso? Leggiti anche:

venerdì 16 maggio 2014

Lovelace? Meglio Deep Throat.

Lovelace è uno di quei film di cui diventa spinoso parlare, perchè nonostante sia poco interessante e per nulla intelligente nel raccontare quello che racconta, porta alla nostra attenzione una vicenda esemplare che merita comunque attenzione.
Il titolo, Lovelace, rivela già moltissimo del carattere dell'operazione dei registi Robert Epstein e Jeffrey Friedman: si parla infatti interamente della vita di Linda Lovelace, la ragazza che suo malgrado diventò nel 1972 la (porno)star più famosa e chiacchierata del pianeta grazie a Deep Throat, in un'epoca in cui il genere porno poteva ancora essere cinema, girato con un minimo di inventiva e occasione di reale scandalo sociale. Deep Throat fu pellicola di rottura, x-rated legale capace di approdare nelle sale "perbene" grazie ad un'operazione di marketing molto sagace e moderna. 
Linda, invece, fu vittima del suo poco amorevole marito Chuck Trainor, in un film in cui non passa minuto senza che ci venga mostrato falso, strafatto, frignone, spregiudicato, senza morale eccetera, casomai ci fossero dubbi.
Se c'è un difetto in questo Lovelace - a parte essere di una banalità e prevedibilità mortale, anche nella forma - è quello di lasciare fuori tutto il contesto, riducendolo a cartolina bidimensionale, per puntare in modo brutale e poco elegante sulle vessazioni di Chuck ai danni di Linda.
Sacrosanto, per carità, anche perchè tutto porta al racconto della pubblicazione (a fine anni '80) del libro Ordalia, dove la Lovelace scrisse tutto quello che le era accaduto. Solo che la pellicola glissa sul fatto che comunque dopo il divorzio dal marito, recitò in altre pellicole hard. Vabbè.
Tornando al film, quando degli ottimi sceneggiatori e registi avrebbero saputo dipingere violenze fisiche e psicologiche senza didascalismi e grossonalintà, il duo Epstein e Friedman calca invece la mano esclusivamente su questo, senza peraltro riuscire ad infondere mai ritmo alla pellicola e suscitare un reale senso di partecipazione nello spettatore.
Attenzione: non ho detto che non si prova pietà per Linda, che anzi attraverso il suo libro ha ricevuto una sorta di tradiva giustizia per quanto le è accaduto, ma che questo è trasposto sullo schermo in un modo talmente anonimo e pedestre (e assolutamente scevro da ogni provocazione, si conta giusto UN topless) da sembrare uscito da una produzione della RAI.
Il paragone con Boogie Nights, film che potrebbe essergli accostato, è semplicemente improponibile. Laddove si riusciva a descrivere la miseria umana e di un microcosmo (ma c'era al timone un fuoriclasse come P.T. Anderson, appunto) con stile brillante, in Lovelace regna la pesantezza e la costante sensazione di occasione mancata.
Quando ho scritto che si parla 'interamente' di Linda Lovelace è perchè tutto il resto, semplicemente, non esiste: costumi, ambienti, personaggi secondari sono buttati in mezzo solo per fare presenza, senza alcuna dimensione umana.
Nonostante il gustoso cast di contorno (Sharon Stone, Robert Patrick, James Franco, Hank Azaria, Juno Temple, Chris Noth), lo svolgimento è insipido e nessuno riesce a tirare fuori un'interpretazione memorabile, se non la 'diva' Amanda Seyfried - cosa abbastanza scontata - e (di riflesso) Peter Sarsgaard, il cui Cuck emerge come figura sfaccettata prima ancora che negativa, forse addirittura più compiuta della "del tutto innocente innocente" protagonista.
Non aiuta poi la causa del film la melensa e insignificante colonna sonora di Peter Trask.
L'occasione era preziosa e il risultato completamente fuori fuoco.

...e adesso? Beh, puoi leggere:
- Nymphomaniac, Lars Von Trier vittima di se stesso

- Il dramma del cinefilo ai tempi dello streaming
- Noah, un film biblico un po' (tanto) fantasy

lunedì 12 maggio 2014

Perchè la tv è meglio del cinema: Jack Ryan - L'iniziazione

"Ho capito, torno sull'Enterprise..."
Sei la Paramount e vuoi rilanciare un franchise di successo spy-action, tratto dai libri di un autore che vende milioni di copie come Tom Clancy (RIP). 
Jack Ryan l'abbiamo visto interpretato da Alec Baldwin, Harrison Ford, e anche da... Ben Affleck, e al botteghino è sempre andato bene.
Per star sicuri, allora, setti un budget di 60 milioni di dollari (bassino ma quanto basta per esser solido), recluti uno come Kenneth Branagh nei panni di regista e di cattivone, un giovane di belle speranza con i nuovi Star Trek alle spalle come protagonista e una vecchia gloria che fa sempre piacere vedere, Kevin Costner, nei panni del vecchio mentore.
Keira, almeno lei...
Ci butti dentro Keira Knightley che male non fa mai. 
Dipingi uno scenario che intreccia 11 settembre, cospirazioni finanziarie e nuovi attacchi terroristici.
E fai un sonoro flop.
Perchè? Semplice, Jack Ryan: l'iniziazione è quanto di più generico e senza mordente Hollywood abbia prodotto negli ultimi anni.
Sembra quasi un film indipendente a basso budget (elicotteri, panoramiche ed esplosioni a parte): personaggi che parlano spiegando qualsiasi cosa, senza carattere definito o dettagli memorabili, scene d'azione ben realizzate ma senza identità e originalità, canovaccio classico svolto senza guizzi.
"Capo, ho fatto un casino (COL film, non NEL film!)"
E poi, soprattutto, una miriade di soluzioni narrative che ti fanno alzare gli occhi al cielo gridando “Seeeeeh!!”.
Una su tutte: invitato a cena dal nemico, il prode Jack finge malamente d'essere ubriaco e lascia che la moglie (civile e sprovveduta) si faccia corteggiare da questo speculatore assassino per mettere in atto escamotage assolutamente privi di ogni garanzia di riuscita (rubare un portafogli, assentarsi per un quarto d'ora, entrare in un edificio supercontrollato senza che nessuno lo riconosca... e così via) per rubare dei segreti dal pc del cattivone. Roba da rimandare gli sceneggiatori a scuola di "cosa fare per mantenere un briciolo di decoro pur chiedendo la sospensione dell'incredulità".
Kevin: "Almeno stavolta non è colpa mia"
I tempi sono cambiati, il pubblico è cambiato. Adulti e ragazzini sono più smaliziati. Chi, al giorno d'oggi, paga un biglietto per vedere personaggi generici compiere azioni generiche e un po' ridicole per salvare l'America e il mondo?
Al giorno d'oggi, quando la tv e lo streaming offrono Breaking Bad, House of Cards, Game of Thrones, True Detective? O anche serie meno “blasonate” ma ben congegnate come The Blacklist, 24, The Shield, Sons of Anarchy?
Non scherziamo.

Questo flop segna un decisivo ed ennesimo scacco della tv al cinema “che conta”... Chris Pine, scommetto, avrebbe preferito una bella miniserie sul piccolo schermo che questo film nel suo curriculum.

lunedì 28 aprile 2014

Nymphomaniac vol.2: poco Von Trier e troppa "persona non grata"

Nella recensione del volume uno avevo definito Nymphomaniac una grande operazione di marketing”. Lars Von Trier porta fino in fondo questa definizione con il volume due, ma nel senso peggiore. Ovvero, di questa opera ci rimarrà solo il ricordo del marketing (e la noia delle versioni uncut, ormai pratica vecchia come il cucco), perchè di cinema o di qualsiasi cosa serva a dare dignità ad un'opera cinematografica, qui non c'è quasi traccia. Tutto quanto di buono costruito dal primo capitolo viene abbandonato, anche le aspettative di un prosieguo meno verboso e più drammaturgicamente originale e coeso, coinvolgente e movimentato.
Se ma c'è stata una cesura inutile, è stata quella tra i due volumi di Nymphomaniac: il lunghissimo dialogo tra Joe e Seligman prosegue nello stesso identico modo, aneddoto – interpretazione dell'aneddoto – scambio di vedute su società/umanità/sessualità, e così via.
Non c'è neppure più traccia di quella vena di ironica-beffarda che aveva alleggerito e impreziosito il racconto la masochistica routine di Joe nel film precedente. Resta un'aura seriosa e mortifera che aleggia per tutta la pellicola, con Von Trier più impegnato a spiegarci attraverso le parole di Joe le sue opinioni non richieste sul mondo, sul politicamente corretto, sulla democrazia e sulla guerra tra i sessi.
Per di più, e mi spiace veramente dirlo, tutte le conclusioni al quale l'autore danese arriva sono, forse per la prima volta nella sua carriera, di una banalità sconcertante ed articolate attraverso le parole anziché veicolate attraverso le immagini e la messa in scena. Concetti lasciati lì, tra lo schermo e lo spettatore.
Anche la storia portata avanti, la storia di Joe, difficilmente riesce a catturare l'attenzione profonda e l'interesse dello spettatore: la sua psicologia rimane comunque abbozzata, i fatti che ne delineano la personalità presentati come quadretti sopra le righe e poco credibili, quasi favolistici. Il conflitto si avverte in maniera labile.
Il simbolismo della pellicola è abbastanza semplice, il gioco dei rimandi con le opere precedenti dell'autore sterile. Ancora una volta, ma con il segno negativo, non si può che constatare la sistematica frustrazione delle aspettative dello spettatore, siano essere onorevoli o meno. E questa volta non si tratta di intelligente strategia, siamo davanti ad un tradimento bello e buono.
Certo, l'autore è padrone della propria opera, ma questo non significa poter utilizzare un film come mezzo per pontificare su concetti che starebbero dentro ad uno striminzito pamphlet e poi sperare di non venir mandati legittimamente a quel paese dal pubblico.
Può darsi che io abbia preso un abbaglio e non sia stato in grado di sintonizzarmi sulla lunghezza d'onda di questo affresco che Von Trier ha messo in piedi per parlare di alienazione e critica alla società bigotta, borghese e perbenista.
Ma francamente, ci vedo poco materiale con il quale elaborare teorie universali.
Nymphomaniac non può avere l'attenuante generica dell'essere “prodotto d'autore”. 
C'è poca Stacy Martin e troppa Charlotte Gainsbourg, c'è poca anima e troppo calcolo, poco sesso e molta pornografia. C'è poco cinema e troppo ego. C'è poco Von Trier e molta “persona non grata”.
Un'etichetta che ha fagocitato il suo compiaciuto portatore.


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domenica 27 aprile 2014

Mi sono (ri)visto Fargo (il film, e poi il pilot della serie tv)

Fargo (1995): vedi alla voce "iconico"
Dunque, com'è la serie tv ispirata a Fargo, memorabile film del 1995 dei fratelli Coen?
Facciamo un passo indietro. Per avere un quadro preciso mi sono fatto una full immersion rivedendo con piacere l'opera originale, gioiellino da ripassare doverosamente e/o da recuperare subito per chi non lo conoscesse, e subito dopo l'episodio pilota della nuova miniserie in 10 episodi del canale FX.
Fargo (il film) nasce come libera reinterpretazione di fatti cronaca che macchiarono la tranquilla e fredda provincia americana tra il North Dakota e il Minnesota. Un sagace apologo, intriso di nera ironia, della pochezza e dello squallore umano, affidata ad un cast strepitoso (Frances McDormand, William H. Macy, Steve Buscemi, Peter Stormare) e, come spesso accade, centrato sul tragico destino di chi non ammette le proprie colpe e si fa sopraffare dall'avidità. 
Fargo (1995): William H. Macy splendido, patetico, idiota.
I Coen, che vinsero l'Oscar per la sceneggiatura, mettono un cartello in apertura che avverte che tutto quello che vedremo è vero, anche se la vicenda in sè, in realtà, non lo è affatto: eppure non dubitiamo mai per un minuto, anche grazie alla ricostruzione fredda e cronachistica, la scrittura calibrata al millimetro delle psicologie e la bravura degli interpreti, che quello che vediamo abbia potuto avere un fondamento di realtà. 
Quello che va detto è che il Fargo cinematografico è un'opera perfetta così com'è, talmente in equilibrio nei toni e compiuto nella sua riuscita da sembrare impossibile da trasporre in una serialità. E qui va subito riconosciuto al creatore Noah Hawley (Bones, The Unusuals) di aver avuto l'onestà intellettuale e l'umiltà di non cercare di replicare il modello ma di affiancarglisi soprattutto nei toni e nei modi, anzi, nel mood.
Fargo (2014): la McDormand era incinta, la Tolman è cicciottella.
Così, dopo i "canonici" avvertimenti che stiamo per assistere a una storia vera, ci troviamo davanti una spruzzata di Lynch e molto degli stessi Coen (che figurano non a caso come produttori) per un pilot della serie televisiva di Fargo che rivela un carattere fondato soprattutto nelle atmosfere rarefatte, nella comicità bizzarra e nel quadretto quotidiano della cittadina immersa nella neve sotto la quale pulsa la follia. 
C'è poi un cast di lusso guidato da Martin Freeman (che raccoglie il testimone di Macy del mite imbranato che rivela il suo lato oscuro) e da un Billy Bob Thornton a cui spetta il ruolo più difficile, affascinante ma a rischio deja-vu del killer misterioso e carismatico, figliastro ideale del Bardem di Non è un paese per vecchi. Completano il quadro la poliziotta giovane e sveglia di Allison Tolman, il vecchio Keith Carradine e lo sbirro debole di stomaco Bob "Saul Goodman" Odenkirk.
Fargo (2014): Martin Freeman, imbranato (ma forse, cattivello)
L'avvio, non perfetto e un po' banale in alcuni dialoghi, è comunque interessante, sebbene presenti già più morti ammazzati che nell'intero film dei Coen. Le potenzialità dei caratteri e della trama sono molto grandi, e il progetto sembra capace di stupire fino all'ultimo episodio. 
La serie dovrà però evitare di cadere nello stereotipo della "small city, big secrets" e dello scimmiottamento delle atmosfere alla Twin Peaks. Al tempo stesso, deve trovare una strada autonoma per i personaggi, rendendoli coeniani nello spirito ma evitando di trasformarli in macchiette ispirate al lavoro dei due fratelli.
Ci può riuscire, e i pochi episodi possono consentire un'ottima gestione del plot.
Se hai visto il film o la serie, lascia un commento con le tue impressioni! 
Sono curioso di sapere che ne pensi.
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