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domenica 12 gennaio 2014

Il Capitale Umano, (in)comprendere un'opera

Nel mare sempre più vasto del'inutilità critica delle opere d'arte (siano ormai dipinte, scritte, filmate o performate live) ci si imbatte ancora, alle volte, in giudizi che fanno cadere le breccia.
Hai voglia a chiamarle opinioni, parola di solito anticipata o seguita dall'assolutorio aggettivo “leggittime”, per far finta di niente: sono giudizi che restano e impongono una riflessione.
Si tratta del classico errore che spesso, da semplici e avvantaggiati fruitori finali, commettiamo con leggerezza: dire “sarebbe stato meglio se...” o simili, mettendo al proprio posto la lettura soggettiva rispetto a quelli che sono gli intenti di chi ha realizzato l'opera in questione.

Il Capitale Umano, di Paolo Virzì, film anomalo nel panorama nazionale in quanto thriller-commedia di costume, racconta un'umanità molto riconoscibile e inizia con la morte di un 'povero' cameriere, investito da un SUV mentre con la sua bicicletta torna a casa dopo il lavoro.
Non lo rivedremo più, se non come comparsa in qualche flashback e sotto forma di notizia nel tg locale. Non è la sua storia che viene raccontata. E' una vittima degli eventi, è colui che, crudelmente, renderà chiaro il titolo del film.
E poi salta fuori qualcuno che rimprovera, anzi, spiega che la pellicola non emoziona perchè non indaga sulla vita della disgraziata vittima e sul dolore della famiglia.
Ancora una volta dobbiamo sentirci dire che c'è bisogno che la sofferenza ti venga sbattuta in faccia per renderla reale, per coinvolgere emotivamente lo spettatore, già di per sé passivo e stracarico di esperienze di racconti di fatalità e di lutti spettacolarizzati.
Adesso, non che Virzì abbia bisogno di una difesa da parte mia, ma se il povero cameriere investito e lasciato agonizzante non è “approfondito” come figura, un motivo ci sarà.
E', anzi, una scelta programmatica fortissima: lascia da parte il motore della vicenda, lo fa aleggiare come uno spettro per tutta la durata, nega il triviale spettacolo del dolore, che già sperimentiamo quotidianamente in televisione, per concentrarsi sulla meschinità della gente che gli ruota attorno, inconsapevole, indifferente, e poi impotente e (spesso) vigliacca.
Se qualche spettatore, e qualche sedicente critico, non ha la capacità di vedere oltre quello che viene mostrato, il problema è soltanto suo.

Il Capitale Umano è un film riuscito, compiuto, anche nelle sue imperfezioni: piaccia o meno, parla del nostro Paese meglio di mille altre opere recenti. A meno che non si vogliano considerare le commedie trash specchio culturale contemporaneo (che allora, probabilmente, parlano bene anche quelle). Anche quando semplifica, tratteggia, abbozza - vedi il consiglio d'amministrazione del teatro che non si farà - Virzì racconta bene la rozza semplicità di alcuni caratteri realmente esistenti.

Un film, non per niente, ispirato ad un romanzo americano e molto “americano” nello svolgimento e negli assunti. Solo che gli americani lo avrebbero fatto senza il bisogno di soldi pubblici.

mercoledì 30 ottobre 2013

Fabio Volo non è il male, l'Italian Dream sì

“In fondo lui fa quello che piacerebbe fare a tutti, anche a te”.

Ecco come si tronca qualsiasi discussione (inevitabilmente critica) su Fabio Volo. Provate voi a continuare dopo quella frase lapidaria. Devi tacere di fronte a chi ti ha detto, e ci crede fermamente, quelle parole: non avrai mai il suo successo, e ti piacerebbe – è logico che ti piacerebbe! - sia che tu stia aspirando a fare lo scrittore, lo speaker radiofonico, il conduttore tv o il tipo famoso senza particolari meriti (categoria che ahimè sta assumendo dignità professionale).

Sono anni che ogni volta che esce un nuovo libro del simpatico ex panettiere di Calcinate (nato non Volo ma Bonetti), tutti si scatenano nel dibattito “intellettuale” (virgolette d'obbligo). Che è parte invariabile del suo successo. Essenziale, inestimabile: far discutere = vendere. Matematico, anche se chi si scaglia coi dardi fiammeggianti spesso se lo dimentica. Hai un bel dire che quei libri sono fuffa, spremute di banalità, concentrati d'ipocrita paraculismo buonist-cerchiobott-sentimental-generazionale. Continua ad inventare offese creative, azzeccate e squisitamente letterarie. Intanto, ogni minuto che passa, Fabio Volo vende una copia del suo romanzo. 

Fabio Volo non è il problema. Anzi, si merita il suo successo. E' quello che spesso non riesco a spiegare nelle conversazioni, incartandomi nella difesa (non necessaria e ininfluente, spesso deleteria) della “vera” letteratura. Siamo al punto in cui se in una conversazione del genere citi, che so, Ignazio Silone come esempio alto, bello, significativo, giusto e (dunque) migliore di scrittura espressa dal nostro Paese provochi lo sbuffare, il rotear d'occhi e ti guadagni l'etichetta di intellettualoide snob. E' il primo step, poi sei invidioso. E poi fallito.
 
Vediamola con occhio freddo e lucido. Volo è la materializzazione dell'Italian Dram: ottenere soldi e successo “senza fare un cazzo”. Che poi lo sappiamo che non è vero. Lui ha capacità, parlantina, senso degli affari, faccia tosta, curiosità e intuito, roba che milioni di persone là fuori si sognano. Ma, dicevo, l'Italia ha l'Italian Dream poc'anzi esplicitato. E Fabio Volo è la materializzazione di quel sogno. Nell'idea di un sacco di gente lui si diverte spensierato prendendo soldi per fare trasmissioni tv girando il mondo, facendo radio dicendo minchiate, scrivendo libercoli sul niente (vabbè, questo è un po' vero). Quel “non fare un cazzo” con cui ci piace etichettare chi fa un lavoro creativo, di comunicazione o che comunque ha una facciata leggera di cui non vediamo il backstage. Quindi, Volo è l'esempio che fa sbavare perchè, “non fa un cazzo, prende soldi ed è famoso”. Ideale che, a quanto pare, è la massima aspirazione dei nostri conterranei.

C'è poi il fattore empatia. Volo non è troppo bello, non è colto da far paura, non ha addosso troppa spocchia e conserva quell'atteggiamento da amicone che puoi incontrate al bar in ogni momento. Non è un modello inarrivabile, insomma. E' anzi piuttosto raggiungibile. Magari chi guarda a lui non sogna di fare le stesse cose – non pensa di avere le stesse capacità, si imbarazza alla sola idea di stare davanti a un microfono – ma guardando verso di lui si sente rassicurato, capisce che è possibile, nel nostro Paese, anche in queste condizioni, che qualcuno si realizzi facendo ciò che gli piace o comunque cose che non implichino fatica/sudore/impegno/sacrificio. E' una idea che piace, quindi Fabio piace come idea, come persona e come prodotto (lo compro, lo sostengo, mi rassicuro, contribuisco a confermare quest'idea che mi porta a comprarlo e vivere felice).

Da qui ad analizzare il vero problema il passo è breve e, spero, anche comprensibile. Il rischio è che quella letteratura da supermercato che viene prodotta da Volo et similia (perchè mica vogliamo escludere animali da reality/talent, pornostar redente e via discorrendo) venga sempre di più assimilata, da sempre più persone, alla letteratura propriamente detta e come tale considerata. Certo, uno può partire con i paragoni tra fastfood e slowfood, ma il problema è che, trend e clientele specializzate a parte, vediamo sempre più gente andare al Mac piuttosto che dal quattro stelle Michelin. E non è solo questione di soldi. Quello che gli snob chiamano “imbarbarimento” è quello che semplicemente si chiama cambiamento: e come il più forte mangia il debole, nella società la massa ghettizza la minoranza. Quindi, a meno di non voler fare i martiri dell'intellighenzia arroccati nella torre di Mordor, occorre superare la fase della presa per il culo e della scrollatina di spalle verso Fabio Volo e iniziare a capire come affrontare in maniera utile il fenomeno.

Purtroppo non credo che la stragrande maggioranza dei lettori di Volo poi, nel corso di uno/due/tre anni, prenda in mano un libro vero. In questo, i suoi romanzi sono l'equivalente dei film di Vanzina-Pieraccioni-Zalone: c'è un'Italia che legge i libri di Volo e gli altri blockbuster-panettoni di personaggi tv o di scrittori imposti dalla tv, ma che non va oltre. E si parla di numeri altissimi. Non so se a questo punto si possa pronunciare la frase-illusione “Sempre meglio leggere che non leggere” o la variante “Se uno legge merda poi magari passa a qualcosa meno di merda”. Non ci credo più: si legge merda e ci si ferma alla merda. Convinti che sia letteratura. E questo è il dramma.
Il dramma è anche che c'è merda e merda (insomma, non paragonerei mai Sasha Grey a Fabio Volo, per ovvi motivi e per motivi anche meno ovvi) e che la capacità critica dovuta a tempi di approfondimento ed analisi è molto bassa, con la conseguente confusione, carenza di attenzione e caduta nello stesso calderone.
La prossima volta che vi trascinano in una discussione su Fabio Volo, invece di arrampicarvi sugli impervi specchi dell'alta letteratura, fate così: dite “Ha il successo che perfettamente si merita in questa società svuotata di valori, aspirazioni, senso morale e civico. Ma preferisco il romanzo di Sasha Grey”. Lascerete tutti perplessi, poco determinati ad approfondire e avrete spostato il discorso su qualcuno molto più interessante.
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