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venerdì 28 febbraio 2014

Snowpiercer, il trenino tutto matto della grande fantascienza

Korea + USA = un treno folle lanciato intorno al mondo in un futuro post-apocalittico gelato da una nuova glaciazione, con i poveri disgraziati degli ultimi vagoni sull’orlo della rivolta nei confronti dei ricchi tiranni di prima classe... *anf anf* Ta-dà!
Mega-metafora dell’umanità mai velata o nascosta, ma per nulla pesante e anzi, divertente nello sfidare lo spettatore a leggere ogni singolo dettaglio nel modo in cui ritiene migliore. E soprattutto, pellicola spesso folle e sorprendente, per nulla scontata.
C'era attesa da parte mia, e che attesa, per questo Snowpiercer, che doveva segnare il grande passo in coproduzione con gli americani di quel bravo regista, forse il più interessante tra i coreani, di certo il più duttile (non volercene Park Chan-Wook, ma dopo Stoker… eh) ovvero Bong Joon-ho. Uno che se non avete visto tutta la sua filmografia, aprite Wikipedia e dateci dentro, signori, perchè ne ricaverete grandi soddisfazioni (tip: Memories of murder, The host).
Iniziamo dalle buone notizie, che sono TANTE e sono esaltanti: intanto il film è uscito in Italia (cosa non scontata) in un buon numero di sale (cosa non scontata affatto) in versione integrale senza tagli (cosa che merita tre punti esclamativi: !!!).
Il che significa: non dovrete sbattervi troppo per vederlo su grande schermo – e lo ripeto per i duri d'occhi: VEDETELO SU GRANDE SCHERMO – vi divertirete come caimani in una vasca di pulcini per la maggior parte del tempo – dove ci si mena, schizza sangue ma sempre nel contesto rivoluzionario e simbolico del fanta-movie con coscienza - e succedono cose pazzesche. Poi c'è anche un po' di dialogo sovrabbondante, ma c'è il dazio da pagare per la paura tutta americana (i Weinstein, che volevano sforbiciare la pellicola) di non essere abbastanza potabili al pubblico di massa.
Qui ci sono le magagne: ovviamente non ci si poteva aspettare un prodotto estremamente eccentrico e narrativamente fuori dagli schemi come una pellicola al 100% asiatica, per cui molti appassionati potranno storcere il naso di fronte a spiegoni fluviali, monologhi didascalici e scelte di sceneggiatura un po’ banalotte. In compenso, Bong regista ci mette tutto quello che può per sabotare il Bong sceneggiatore, imbrigliato dalla co-scrittrice USA Kelly Masterson. Quindi, un comparto visivo strepitoso, che catapulta lo spettatore dai grigi e dal buio della prima parte ad un rutilante ottovolante pieno di trovate nella seconda, con in mezzo personaggi semplici ma non banali, cattivi inquietanti e fuori di testa, scene d’azione lunghe, articolare, coreografate alla grandissima e divertenti (da accompagnare a gridolini e sommessi applausi, con cenni d’assenso con la testa). L’ultima parte opera quell’atteso e inevitabile plot twist che conduce al finalone, al tirare le fila e i destini dei personaggi, dopo un rallentamento di ritmo che rischia di far calare la tensione ma che, in fondo, non è che l’ultimo slancio prima del salto nel vuoto finale.
Cast da promuovere, sebbene le interpretazioni non siano tanto eccelse quanto, se mai, aderenti ai personaggi: vale a dire monolitico il protagonista tormentato Chris Evans, vagamente grottesca e sopra le righe Tilda Swinton (ahahah, ma solo vagamente, sì), sottotono John Hurt e da sufficienza Jamie Bell. Il ruolo dell’outsider cool tocca al taciturno attore-feticcio coreano Song Kang-Ho con la “figlia” Go Ha-Sung, coppia che rappresenta la variabile impazzita, oltre che indispensabile, del gruppo.
Da sottolineare ed esaltare diversi aspetti della pellicola: l’assenza di un qualsivoglia istinto al politicamente corretto; l’assenza di riguardo verso l’incolumità dei personaggi maggiori e per la pletora di character secondari e/o cattivi abbozzati, che vengono senza distinzione falciati lungo l’avvicendamento dei vagoni nei modi più disparati; l’averci risparmiato il solito love interest del protagonista, i baci noiosi, gli addii strappalacrime, i commiati patetici. Insomma, grazie.
Snowpiercer è un bel filmone di fantascienza, solido, visionario, che in più di un tratto ricorda – ma senza mai risultare derivativo - le belle opere fantastiche e di fantascienza degli anni 80-90, dal George Miller dei Mad Max al Jean-Pierre Jeunet di La citè des enfants perdus, e tanti altri. Tutto questo con un immenso talento nella messa in scena, un fortissimo senso dello spettacolo e la voglia di piegarsi a pochi compromessi.

Da vedere e godere!

mercoledì 26 febbraio 2014

Arizona junior minds, ovvero: la mia religione è non vendere ai gay

Cosa ho imparato oggi:
La Governatrice Brewer: express yourself
Le leggi antigay servono a tutelare le persone religiose dai gay.
I quali, notoriamente propensi all'esasperazione delle reazioni, se gli dici “no” e li tratti come gli americani facevano con i neri fino a pochi decenni fa, magari nel loro piccolo s'incazzano e ti trascinano in tribunale.
Allora, che facciamo stamani, miei cari parlamentari dell'Arizona? Approviamo una bella legge che punisce chi discrimina?
No.
Il governatore dell’Arizona repubblicana Jan Brewer il 19 febbraio beneplacita il passaggio di una legge che ridisegna i contorni della libertà religiosa e – pepperepé – mette la pistola in mano (figurata, ma tanto siamo in America) ai lavoratori che non vogliono neppure sentir parlare di omosessualità, figuriamoci servire/esaudire i desideri di due persone dello stesso sesso che stanno insieme.
Legalizzate qualcos'altro, néh.
E voi direte: embè? Cavoli loro, perdono dei clienti, fanno meno soldi, il passaparola sarà negativo e tante belle cosine su cui possiamo fare un libro illustrato da colorare coi pastelli.
La verità è che, semplicemente, vince ancora una volta la grossolana ignoranza spacciata per “libertà” e dignità di un credo.
Quante volte ve lo devono ancora ripetere gli americani, per farvelo entrare in testa, che la discriminazione, quando è avallata da un pizzico di religione, è sempre giusta?
Tutto questo casino, nelle ultime ore, per qualcosa che permette ai commercianti di fare obiezione di coscienza e negare a clienti omosessuali i propri servigi, e non avete ancora centrato il punto.
Bravo, Sampei, diglielo coi gessetti!
Lo Stato dell'Arizona deve tutelare i suoi pii e devoti cittadini che, per motivi di credo, non ci pensano neppure a prestare i loro servigi (o vendere qualsivoglia prodotto) a due persone dello stesso sesso. Ma perchè si arriva a questi punti? Semplice, perchè quei malvagi gay odiano sentirsi discriminati e fanno arrivare addirittura in tribunale le personcine che, ne sono sicuro, hanno tanto garbatamente esposto il proprio punto di vista alienandosi dei clienti (che, fossero stati alieni, probabilmente sarebbero stati invece serviti). Cioè, vi rendete conto? Provare a far vincere un principio di civiltà e di umanità, di – oddio, spero non mi sentano i repubblicani e i leghistiapertura mentale attraverso l'ordine costituito? E' troppo. Diamine, LGBT, sparate a quel dannato commerciante omofobo e l'avrete vinta – ma se volete comprare le sue focaccine, beh, vi faranno una legge statale contro.
Contrattacco: lo stai facendo benissimo.
Insomma l'Arizona, come altri Stati USA – tra cui i civilissimi Mississippi, Oklahoma e Tennessee – ha messo in atto, approvando una legge a maggioranza, questa sorta di SCUDO COMMERCIALE ETEROSESSUALE.
Perchè mica vuoi approvare una leggere per rendere la discriminazione un reato? Ehi, non siamo nello spazio col Doctor Who. Sulla Terra lasciateci il nostro modernissimo protezionismo sessuale da difendere con le unghie e con i denti.
Vabbè. Chissà se la governatrice Brewer farà la cosa giusta e metterà il veto tra un paio di giorni, come chiedono molte grandi multinazionali (loro sì che sanno che pecunia non olet e che queste battaglie hanno grande ritorno d'immagine), e persino due grandi repubblicani ex candidati alla Casa Bianca come McCain (no, non quello delle patatine, disattentoni!) e Romney.
La sensazione è che probabilmente si risolverà tutto in una bolla di sapone. Ma il fato che questo tipo di leggi esistano e ancora oggi si tenti di farle entrare in vigore mi fa un po' ridere e piangere.
Anche se sarei curioso di vedere come un negoziante retrogrado sarebbe capace di negare a due bodybuilder che entrano mano nella mano di comprarsi un lecca lecca.

domenica 23 febbraio 2014

Icons: Orson Welles

Style is knowing who you are, what you want to say, and not giving a damn.
— Orson Welles 

sabato 22 febbraio 2014

12 anni schiavo: Happiness is a warm whip

Qual è il modo giusto di approcciarsi ad una pellicola come 12 anni schiavo?
Miliardi di recensioni (e/o status, tweet etc.) tutte uguali utilizzano la dicitura ‘pugno nello stomaco’: che fantasia
Solomon dice: "BASTA CON 'STI PUGNI NELLO STOMACO!"
Sono anni ormai che l’asticella del rappresentabile, anche nei film “da Oscar” e/o di larghissimo consumo, si è alzata. Non dovrebbe sorprendere la rappresentazione di sofferenze inflitte tramite sanguinolente pratiche sadiche in un film dove si affronta un periodo dove venivano inflitte punizioni tramite pratiche sadiche
E non venite a dire che tutti i film potenzialmente sono di largo consumo, perchè solo pochissimi arrivano per le più svariate ragioni al pubblico mondiale, e ancor meno a premi importanti.

Quindi, per favore, non recitiamo noi spettatori la parte della sciura borghesuccia di mezza età che scopre la schiavitù americana dell’Ottocento e gli orrori della violenza e dell’omicidio disumano assistendo a qualche esecuzione e tortura assortite, a base di fruste e impiccagioni. Perché il passo, dal buonismo stantio all’ipocrisia molesta, è breve. Se per voi è un pugno nello stomaco quello che si vede in 12 anni schiavo (e indubbiamente, comunque, è ben rappresentato), allora non aprite mai un libro di storia dedicato approfonditamente alle condizioni di vita degli schiavi neri d’America, casomai non vi venisse un infarto.

"Farfallina..." (ma Fassbender non capisce)
Parliamo di cinema, e non facciamola lunga: la storia è reale, basata sulle memorie del vero Solomon Northup, cittadino di colore nato libero nello stato di New York e violinista nell’America schiavista di metà Ottocento: tradito da due loschi figuri, sarà separato dalla famiglia e venduto come bestia da soma a proprietari terrieri del sud. Storia portata in scena con competenza: Steve McQueen è regista purosangue e sa benissimo come affrontare i momenti patetici, quelli violenti, quelli lirici senza mai eccedere. Difficile trovare una scelta registica fuori posto o un qualcosa di stucchevole e tirato per le lunghe. In questo 12 anni schiavo riesce a coniugare benissimo un’autorialità mai compiaciuta con le esigenze da spettacolo hollywoodiano, senza mai cadere nell’affresco inerte o indifferente di un Ron Howard a caso. 

Come direttore d’attori, McQueen sa dare spazio ad interpretazioni mai sopra la soglia del tollerabile, anche nella loro eccessività (e mi riferisco in particolare al feticcio Fassbender, che ruba in ogni occasione la scena con il suo scatenato schiavista laido, viscido e perfettamente a posto con la coscienza). Il miracolo della pellicola è di certo la Patsey di Lupita Nyong'o, un personaggio che, indipendentemente dall’attrice, ha una portata drammatica talmente forte scaturita dalla penna di John Ridley (il quale adatta l'autobiografia di Northup) che porta in modo automatico a glorificare anche l’interprete. Non fraintendetemi: un’attrice con un milligrammo in meno dell’intensità di Lupita avrebbe mandato le cose a monte. Ma quello di Patsey è il tipo di character che la sceneggiatura, in partenza, tratteggia come oggetto della totale pietas e dell’empatia dello spettatore. Non c’è nulla di male ad ammetterlo e a lasciarsi soggiogare da questo metodo di lavoro, che peraltro funziona splendidamente.

Eccolo, il Lincoln-wannabe "risolvo-tutto-io"
Ma è, ad esempio, stucchevole la comparsata di Brad Pitt nel ruolo, piatto e inerte, del buon cittadino homo faber giramondo di larghe vedute, che sarà il deus ex machina attraverso il quale, dopo una ‘semplice’ discussione, Solomon riacquisterà la sospirata libertà dopo i 12 anni del titolo. Ecco, Pitt è la quint’essenza della star generosamente prepotente in ruolo inutile (Ehi! L’ho prodotto! È merito mio! Ci sono anch’io!) che certifica la straniante presenza di attori noti che non hanno ruoli ma dei cameo, che – anche per la natura abbastanza archetipica per non dire schematica dei personaggi affidati – non brillano affatto, anzi rappresentano un inciampo, quasi una zavorra al naturale scorrere del film. Ciao Paul Giamatti, ciao Paul Dano.

Se ricevi più complimenti di me, t'ammazzo!
Infine, nota di merito al protagonista Chiwetel Eijofor che rischia di essere il meno celebrato, pur portando il peso di tutta la pellicola sulle spalle: grande presenza scenica, interpretazione calibrata e mai patetica, perfetta nel rispecchiare il carattere e la volontà del suo personaggio attraverso gesti, sguardi e toni di voce, anche negli aspetti più umanamente individualisti.

In definitiva, 12 anni schiavo è un film da vedere, ben al di sopra della retorica a cui spesso certa tipologia di cinema ci ha abituati. Non è certamente l’opera migliore di McQueen, tutt’altro, ma un’ottima prova di personalità che non si lascia imbrigliare. Sul valore assoluto della pellicola come dramma in costume, forse, qualche perplessità è legittima, ma è uno spettacolo che vale il biglietto.

venerdì 21 febbraio 2014

La morte in diretta. E la morte indiretta.

Olesya Zhukovskaya ha 21 anni, fa il paramedico e si trova in mezzo agli scontri in corso a Kiev.
Improvvisamente, viene colpita da un proiettile al collo.

La foto che ritrae Olesya colpita e sanguinante, con una mano al collo e l’altra al cellulare…

Mi sono fermato mentre stavo componendo la frase e la lascio così com’è.
Qualcuno, in quella foto, sta portando via la ragazza per soccorrerla. Gli stessi soccorsi che le salveranno la vita, come le stessa ha poi comunicato. In mezzo a proiettile e foto, il cellulare. Stretto in mano da Olesya e utilizzato per comunicare la propria morte incombente.

La tragedia e la spettacolarizzazione (o informazione, chiamatela come volete, anche qui si potrebbe dibattere ore) del dramma. Subito diventa simbolo.

Una ragazza, ferita, consapevole di essere probabilmente a pochi minuti dalla fine, comunica la propria morte al mondo tramite Twitter.

Come possiamo trascurare un fatto di questa portata? Come possiamo lasciarlo scorrere via nel flusso del resto delle notizie del giorno senza valutarlo come punto di arrivo, di non-ritorno o di partenza di una nuova forma di probabile e inquietante in-sensibilità da condivisione?

Il tweet di Olesya viene non soltanto ri-twittato migliaia di volte, ma anche inserito nei preferiti di molti utenti.

Quando sento gran parte della gente scherzare sulla pornografia e/o sulla passione di alcuni per i film che mettono in scena splatter, snuff movies e torture varie, non posso fare a meno di pensare ad episodi come questi. Non posso evitare di chiedermi come si possa anche solo pensare che la fiction possa rivaleggiare con qualcosa di reale – con la pornografia del reale, di cui la morte è uno zenit - che inconsapevolmente passa, senza filtro, attraverso la nostra umanità, la trafigge riempiendola di crepe, e, ad ogni episodio simile, la riduce di parecchie unità, abbassando la nostra soglia della percezione del moralmente accettabile, dell’eticamente recepibile.
Senza rendercene conto.

La morte indiretta della nostra sensibilità.


Questa storia, come detto, ha fortunatamente un “lieto fine” perché Olesya (o chi per lei) ha twittato da poco, dal suo stesso account, di essere viva. Le auguro con tutto il cuore di non dover mai più avere occasioni per raccontarci la sua morte.

mercoledì 19 febbraio 2014

Quello che ho capito della prima serata di Sanremo dai social dei miei amici

Perchè Sanremo è Sanremo ma soprattutto quelli che criticano Sanremo! In tempo reale, ancor meglio. Ecco, ieri sera sono stato *purtroppo* costretto ad uscire a socializzare (ehm, nel senso "fisico" del termine), divertirmi e conoscere gente interessante, quindi - indovinate un po'? - mi sono perso la prima serata della kermesse canora (adoro questo orribile termine, che calza a pennello) e l'ho vissuta solo a colpi di status, su FB e Twitter, da parte delle mie conoscenze
Ecco l'esperimento: vediamo cosa ci ho capito dopo aver letto centinaia di post, tweet, visto immagini etc etc.

- Il sipario è (metaforicamente) calato ancora prima di essersi alzato.
Sarà un'ottimo espediente retorico da utilizzare negli acuti pezzi riassuntivi in caso di flop.
Il sipario che non si voleva alzare... possiamo farci una fiction, RAI?

- Disoccupati protestano. Fazio scherza. (Scherza, sul serio) Poi non legge, anzi forse legge, ok, legge la lettera. (Però nessuno mi ha scritto i contenuti...)

- La Carrà, a 71 anni, in abbigliamento descritto tra l'Hell's Angel e il metallaro anni '80 che chiede la liberazione dei marò. In pratica, tipo Bono che chiede l'arresto della fame nel mondo agghindato da Renato Zero. Ah, a quanto pare molte donne sui trenta invidiano il fisico della Carrà.

- La Littizzetto l'ho vista in foto e solo e soltanto in costumi ridicoli (uno da Carrà, non versione dark-fetish però). Ha mai avuto un vestito vero addosso?

- Fazio con la barba sta malissimo (e non è che l'impermeabile dell'Ispettore Gadget migliori il quadro).

- La Casta meglio ora che 15 anni fa (Donne per lo più - spiegatemelo)

- C'era Venom sul palco?

- Qualcuno, evidentemente scherzando con pessimo gusto, si è inventato che Ligabue è salito sul palco e ha cantato Crêuza de mä di De Andrè. Per favore, non spariamo cazzate che già sto male al solo pensiero.

Gli evergreen:
Fazio lo pagano troppo.
La Littizzetto la pagano troppo.
Il Festival costa troppo.
Meglio Pippo Baudo (ma quando c'era Baudo voi dov'eravate?)

E, naturalmente, musica non pervenuta se non: le canzoni fanno tutte schifo (tranne sui profili degli artisti: lì qualcuno dice che sono belle)

Aggiungo una cosa: quando c'erano Francesco Salvi e Gigi Sabani in gara, il Festival era davvero un'altra cosa (e soldi ben spesi? LOL). 
Solo che ce ne rendiamo conto solo a guardare questa edizione... 

lunedì 17 febbraio 2014

Belle e Sebastien: Nostalgia CANaglia

Prima della cura
Buono. Ma che dico buono, due volte buono! Signora, cambierebbe i suoi due cagnolini stupidi e fastidiosi con un candido bestione sesso femmina intelligentissimo, buonissimo e affettuosissimo? Suvvia, signora, lanci quei due carlini nel vuoto di un canalone delle Alpi e si prenda Belle, che pesa due tonnellate e mangia un bue al giorno (ah, no, scusate, lei no, mica è carnivora: però ruba le salsicce ai cattivi, ci mancherebbe). Ah, con lei viene anche quel piccolo orfano autistico di Sebastien. Tanto il nonno, che è scorbutico ma buonissimo, lo lascia andare da solo per chilometri sotto ogni pericolo montano. E pure la sua amica panettiera, che dopo un'impresa da scalatori del K2 gli fa fare il percorso inverso all by himself. Ma tanto c'è Belle. Oh, e il dottore buonissimo che aiuta le famiglie ebree che fuggono dai crucchi, e le fa scappare attraverso i monti verso la civilissima Switzerland (che c'hanno pure il cioccolato buonissimo, anche se meno del Novi?)... quasi prendeva il podio ma viene scalzato dal nazista infoiato che sbava per la bella panettiera francese e che, divenuto buonissimo alla luce di chissà quale epifania (dato che lei mando gliela fa annusare), viaggia per chilometri alla velocità della luce per avvertirla che i suoi uomini stanno per sgamarla mentre lei gioca a fare la partigiana.
Dopo la cura
Ok, è un film tratto da un cartoon di 30 anni fa ed è per famiglie, ma è un'opera così raffazzonata nella logica degli eventi che insomma... io ricordo degli episodi del cartone animato più ricchi di pathos di questo pastrocchio. Comunque, in Italì, dove il buonismo è sempre buon veicolo di buoni incassi, il filmetto di Nicolas Vanier (peraltro tecnicamente girato bene e dai paesaggi mozzafiato) ha preso per due volte la vetta del botteghino e ha incassato, per adesso, sei milioni di euro.
[Sì, sì, lo so e lo ripeto che è per bambini: ma non è che ai bambini vada sempre propinata della stucchevole melassa! Persino i cartoni - giapponesi, eh - c'avevano spesso delle ambiguità formative]

sabato 15 febbraio 2014

Instant Cut: Ellen Page

I am young, yes, but what I have learned is that love, the beauty of it, the joy of it and yes, even the pain of it, is the most incredible gift to give and to receive as a human being. And we deserve to experience love fully, equally, without shame and without compromise.
— Ellen Page, nel discorso per il suo coming out














mercoledì 12 febbraio 2014

ICONS: Shirley Temple

Shirley Temple (1928-2014)
"Ho smesso di credere a Babbo Natale a sei anni. La mamma mi portò a conoscerlo in un grande magazzino e lui mi chiese l'autografo"

















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