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lunedì 30 giugno 2014

Formazione professionale giornalisti: cosa serve davvero?

La formazione professionale continua è un obbligo anche per i giornalisti, e dopo le direttive dell'Ordine nazionale, ogni realtà regionale sta mettendo in piedi corsi per i suoi iscritti.
Qui in Toscana le cose vanno relativamente bene, anche se più corsi online e gratuiti sarebbero graditi (ma su questo tema, c'è una petizione online di respiro nazionale che vi invito a firmare). Sabato scorso, a Castiglioncello, si è discusso di informazione nel mondo dello spettacolo dal vivo. Un particolare giornalismo settoriale che ha visto in modo progressivo il suo spazio assottigliarsi e il suo esercizio diventare passione.


Quindi parlerò di questo, nel post? Assolutamente no, caro lettore. Siccome siamo una categoria vivace, polimorfa e perversa, è possibile che un corso di aggiornamento non vada come previsto e tratti solo in minima parte l'argomento di partenza. Quelle dei corsi di formazione sono anche e soprattutto occasioni per parlare, confrontarsi, sfogarsi e ascoltare. Cose che, per stessa ammissione di chi ha più esperienza, non sono mai state all'ordine del giorno.

L'argomento è: i corsi di formazione. La domanda da un milione di dollari è: come si fa vera formazione ad una categoria dove si fa a gara a chi è nato più imparato degli altri, dove tra colleghi ci si s(u/o)pporta a malapena e dove si sbuffa non appena qualcuno vuole insegnarti qualcosa? Personalmente ritengo che la formazione sia non solo utile, ma necessaria. Ovviamente, dovrebbe essere messa in atto in forme dalle quali siamo distanti anni luce (e che forse non raggiungeremo mai).

Per carità, etica, deontologia, privacy, videoediting, critica televisiva sono cose importanti. Ma la sfida più immediata per la nostra professione è quella della sopravvivenza a ciò che è stato lo tsunami degli ultimi anni: la proliferazione della professione online (anche in modo selvaggio), l'esercizio indiscriminato di strategie per rendere il giornalismo un bene commerciale come qualunque altro, il blogging mascherato da notizie verificate, le strategie di marketing per rendere la scrittura un mero esercizio di SEO e SERP.

Per chi non avesse ben presente il quadro della situazione, ci troviamo ad un punto in cui alla maggior parte degli iscritti all'Ordine deve essere spiegato cos'è e come si usa internet, scendendo poi nello specifico del funzionamento di testate online, blog, social, eccetera. A chi già usa gli strumenti e ne ha acquisito un minimo di dimestichezza, bisognerebbe però anche far capire che la fantomatica “rivoluzione” tirata in ballo a destra e a manca è soprattutto culturale e di identità professionale.

Perchè dovrebbe esistere ancora un giornalista se andiamo sempre più verso un'informazione dove chiunque abbia le dita per battere su una tastiera si vende (si fa per dire, ci fosse qualcuno che paga...) al pari di chi ha fatto un percorso professionale, ha un'esperienza acquisita e conosce i “suoi” diritti/doveri? Questa è la risposta che dobbiamo provare a darci quanto prima. Per avere una base concreta dalla quale (ri)partire.

Vogliamo parlare di settoriale e di approfondimento, quando ben sappiamo che questa rimarrà una fetta importante ma minoritaria del panorama del giornalismo? Ha ancora senso parlare di carta stampata e di web come realtà contrapposte? O magari dobbiamo renderci conto che siamo, prima di tutto, una categoria che deve recuperare autorità, dignità lavorativa?

In ogni settore giornalisticamente affrontabile vanno combattuti i fenomeni che hanno tolto qualità e rispetto alla nostra professione. Penso che non ci sia bisogno di esempi, ogni giornalista potrebbe riportarne a centinaia (salvo poi, magari, cadere in comportamenti che altri stigmatizzano a ragione). Per troppo tempo tanti giornalisti – soprattutto quelli che spesso “portano il vessillo” in giro - sono rimasti adagiati sugli allori di una rendita di posizione che non ha fatto che generare confusione, insicurezza, disoccupazione, scarsa innovazione e nessuna voglia di confrontarsi coi tempi che corrono. Questo detto senza cercare aride colpe o responsabilità, sia chiaro. Però mai come adesso, l'espressione “scendere dalla torre d'avorio” è azzeccata. Consiglieri dell'Ordine Nazionale, siete in ascolto?


Eppure (e non è una provocazione) ora più che mai è inutile lanciare anatemi contro l'Ordine dei Giornalisti e sbraitare per l'abolizione. Un Ordine serve, anzi è necessario. Ma un Ordine al passo coi tempi, veloce e combattivo, che tuteli davvero chi lavora correttamente (o chi vorrebbe lavorare) e punisca chi contravviene alle regole. Lo so, è fantascienza. O forse è fantascienza adesso, ma sarebbe meno fanta e più scienza se la consapevolezza che il futuro incombe spingesse tutti a passare dalle parole ai fatti.

venerdì 27 giugno 2014

The Raid 2, la recensione: più mazzate e meno trama, grazie!

Qual è la quintessenza del cinema d'azione di arti marziali?
La gioia delle mazzate nei denti, ovvio. Quand'è, quindi, che un prodotto diventa il migliore della sua categoria? Ad occhio e croce, quando le mazzate sono talmente tante e ben coreografate da rendere superfluo tutto il resto.

Questo era The Raid (2011). Non appena uscito, il film indonesiano del gallese Gareth Evans è diventato immediatamente un cult: trama poca o nulla, lo spettacolo del pencak silat, l'arte marziale del suo protagonista Iko Uwais, un'ora e mezzo di azione senza sosta e stuntman pazzi che prendevano botte da orbi e volavano giù dalle scale atterrando di schiena sui balconi. Il pretesto di un assalto di una squadra della polizia all'edificio di un boss locale si trasformava in una mattanza a mani nude claustrofobica e vertiginosa.

Insomma: il futuro del cinema d'azione si è spostato in Indonesia, dopo un occidente ripulito da sangue e cattiveria e Giappone e Cina/HK vittime di un funambolismo sterile.

Dopo il successo in patria e anche all'estero, complice la distribuzione americana con le musiche di Mike Shinoda, per The Raid era inevitabile l'arrivo di un sequel, che prende le mosse da un progetto precedente di Evans, in stand-by perché troppo ambizioso: Berandal, divenuto dunque il sottotitolo di The Raid 2.

Che sia un progetto ambizioso si capisce subito. Ambiente criminale e faide tra clan di razze diverse, scontri generazionali familiari, tradimenti, poliziotti infiltrati. Roba da John Woo, Johnnie To e perfino Scorsese. Per fortuna Evans non si sopravvaluta e mantiene l'azione al centro di tutto. Purtroppo, questo centro traballa molto perché sottoposto a diverse scosse telluriche: quelle di una trama abbastanza banale e allungata, di scene superflue e di personaggi macchiettistici.

Intendiamoci: The Raid 2 impone di credere ad un universo dove le armi da fuoco sono praticamente bandite e tutto si risolve utilizzando armi bianche e mani nude. E fin qui va bene. Ma puntare due ore e mezzo di film sullo stravisto schema del figlio ingrato e arrivista e del poliziotto sotto copertura è un azzardo. Per non parlare di due personaggi che spuntano dal nulla (e rimangono nel nulla) troppo ridicoli per risultare interessanti: Hammer Girl e Baseball Bat Boy – non hanno nomi – oltre a non essere grandi combattenti sono veramente troppo sopra le righe per non risultare goffi tentativi di omaggiare il cinema di altri paesi orientali o Tarantino. Altra ingenuità, l'incredibile fanservice con le lunghe sequenze con Yayan Ruhian (il leggendario Mad Dog del primo film), che sebbene siano belle e spettacolari, poco aggiungono al resto della pellicola e appesantiscono la durata.

Ciò detto, mi ricollego all'incipit: le mazzate ci sono, e sono epocali. Praticamente ogni scena di lotta è da antologia. Tranne le brevi sequenze mirate solo a destare lo spettatore dalle troppe scene di raccordo, tutto il resto umilia il cinema d'azione contemporaneo: dalla mega rissa nel fango in prigione, alla sequenza sull'auto, ai combattimenti finali contro i due mocciosi antipatici e il braccio destro del boss cattivo (quest'ultimo il top del film).


Iko Uwais è in formissima, gli avversari non gli sono da meno. Il risultato è il miglior cinema d'azione che si sia visto dai tempi di... The Raid. Se siete disposti a sopportare qualche scena statica di troppo e una trama per niente originale, avrete di che godere. 

Fargo, la prima stagione tv colpisce ma non stupisce

La serie tv di Fargo è arrivata alla fine.
Il giudizio è complesso: grande qualità e intrattenimento di alta classe, certo, ma anche una miniserie in 10 episodi che ha faticato a trovare un'identità ed una coerenza interna.

L'andamento rapsodico legato soltanto dal sottile filo dell'indagine della caparbia Molly Solverson (Allison Tolman) sull'ambiguo Lester Nygaard (Martin Freeman) ha finito per essere un palcoscenico per l'istrionico Billy Bob Thronton nei panni dell'assassino multiforme Lorne Malvo.
Una figura archetipica, fortemente metaforica (come i fratelli Coen insegnano) ma forse un po' troppo compiaciuta e irrisolta, sebbene dal forte carisma.

Fargo è un prodotto che si è fin da subito rivelato molto legato al prototipo cinematografico, e che ha confermato pregi e difetti del voler trasportare una filosofia prettamente da grande schermo come quella dei Coen (una storia esemplare e circolare in due ore) su quello piccolo.
Non tutto è perfetto. Soprattutto quando si cercano di portare nella serialità le ellissi e i paradossi coeniani, con il risultato che certi personaggi rimangono in sospeso (il killer sordomuto), meccanici e banali (Bill), superflui e irritanti (i due agenti dell'FBI).

La serie, nello spirito, rimane fedele e rispecchia quello strisciante nichilismo e il pessimismo che erano proprio del Fargo cinematografico.
I soldi e l'avidità rovinano la vita, il delitto comporta sempre un castigo, le circostanze rendono l'uomo gretto e spietato, la redenzione è quasi impossibile, la violenza chiama sempre altra violenza in una spirale dolorosa e paradossale.
Al tempo stesso, la serie esalta le qualità della “gente comune” e dipinge un microcosmo dove chi rimane fedele alle proprie idee e ai propri valori, soprattutto quelli semplici ed essenziali, ne esce vincitore (o comunque vivo).

Un esperimento di connubio cinema-tv interessante, perché non si limita ad essere un semplice sequel o remake (sebbene ci sia una strizzatina d'occhio ad una continuity con la pellicola, per chi la becca), ma un'opera che dialoga in modo interessante con il modello di riferimento.
Opera di alta tv che non raggiunge l'eccellenza ma intrattiene con grande intelligenza, cercando coraggiosamente di premere qualche tasto che mina la classica struttura televisiva: vedi le digressioni narrative, il gusto del racconto di aneddoti, le frasi e le situazioni non spiegate ma affidate all'interpretazione soggettiva dello spettatore.


Cast superbo e affiatato, regia puntuale e geometrica, scrittura eccellente hanno fatto il resto: da vedere, con la consapevolezza che forse si troverà l'insieme al di sotto del valore delle sue singole componenti.

E adesso? Puoi leggere anche:

mercoledì 25 giugno 2014

Un morso al social marketing, i brand ringraziano Luis Suarez

Social marketing con occhi e tastiere sempre pronti, ormai è regola: e se Luis Suarez sgranocchia la spalla di Chiellini durante il Mondiale di calcio, subito sotto a sfruttare l'ondata virale di status, tweet e meme.

In principio furono gli Oreo, quei bellissimi biscottini neri col ripieno di latte che da piccolo definivo "i Ringo negativi" (anche se i Ringo il nero già ce lo avevano).
Il 4 febbraio del 2013, durante il Superbowl, tirano fuori sui social (Twitter) in pochissimo tempo un'immagine che sfrutta il blackout avvenuto nello stadio di New Orleans: 
Alè, case study bello e pronto per social media manager, esperti di (social) marketing e via dicendo. La velocità di una battuta tradotta in instant-spot con il linguaggio ironico e immediato della rete. Bel colpo.

Da allora di caratteri ne sono passati sugli schermi e adesso tutti sono più pronti all'azione. Persino a casa nostra. Basta un evento fuori dall'ordinario, come può essere un morso tra giocatori in una partita del Mondiale brasiliano, e tutti piombano come falchi. Tutti, o meglio, chi può sfruttare l'accaduto perché è un brand legato alla "masticazione".
Pronti via: ecco chi si occupa di hamburger, patatine, bistecche e merendine

Cosa si nota? Che c'è ben poca inventiva e tutti giocano sulla retorica del cibo, del gusto e del morso. Niente elaborazioni grafiche, semplice sfruttamento del fatto avvenuto. 

Poi ci sono i brand che invece si occupano della salute dei denti (o le birre che si aprono con i denti)



E i nostri? Beh, c'è da dire che, al bando l'originalità, Barilla e Pavesi (Gocciole) ci hanno messo impegno:

Infine, come non citare i migliori esempi: quelli della tv, con Discovery Channel e AMC-Fox, che forte del comportamento da zombi (anche cerebrale) di Luis Suarez ha rilanciato il successone The Walking Dead

Se ti va, puoi leggere anche:

- Marketing dell'antirazzismo (con banane)
- Davvero nel giornalismo servono foto-shock?
- Dylan Dog e una generazione allo specchio

lunedì 23 giugno 2014

Rolling Stones al Circo Massimo: la recensione definitiva del concerto

Il concerto dei Rolling Stones al Circo Massimo di Roma: evento, anzi eventone, che fin dal principio ha fatto discutere. E come sempre, quando si parla di rock e ci sono in mezzo gli Stones (e anche un po' l'Italia) polemiche ed esaltazione sono andate di pari passo. Ecco la recensione definitiva con comodo elenco alfabetico (escluse la Y di yeah! e la W di W la mamma):

A come acustica: cioè, iniziamo dalle note un po' stonate (non che Jagger le abbia prese tutte). Lo spazio è enorme, i tecnici fanno quello che possono. Resa non ottimale e volumi a volte poco calibrati. Senza infamia e senza lode, e chi s'accontenta gode.


B come bagarini: ovunque, come sempre, a vendere biglietti (veri e falsi) fino a 150 euro l'uno, con sconti comitiva previsti. Quelli falsi - circa 2500 - vengono prontamente sgamati agli ingressi. Comunque, c'era anche gente normale che lucrava sui biglietti degli amici rimasti a casa per sfighe varie.

C come caldo: tanto, ma non insopportabile, neppure per chi ha sopportato da mattina a sera (28-32 gradi). Niente malori né svenimenti o allucinazioni o stragi indotte, per intenderci. Il cielo ci ha voluto bene.

D come D'Alessandro & Galli: i veri vincitori (assieme agli Stones e noi). Gli organizzatori - assieme ai tizi del Rock in Roma - vincono e convincono, si pigliano il Circo Massimo con 8 mila euro e generano un guadagno per il carrozzone di sei milioni e mezzo.


E come emozioni: tante e per tutti. Una scaletta piena di capolavori, un'esibizione professionale e coinvolgente, pochissime sbavature e soddisfazione del pubblico con la band che non si è risparmiata.

F come frustrazione: qualcuno si è lamentato per la mancanza di questa o quest'altra canzone, qualcuno per la scomodità del posto accattato (beh? c'erano tanti anziani, sapete?), qualcuno addirittura per i fuochi d'artificio scarsini sparati alla fine. Dalla serie: se vuoi fare una cosa, falla alla grande. 

G come generazioni: tutti a contare le generazioni presenti... tre, quattro, cinque... ma chi se ne frega. C'era gente dai sette ai settanta anni, vi basta?

H come hype: ce n'era molto. A questo punto la domanda da un milione di dollari: le aspettative sono state ripagate? A mio modesto avviso, pienamente. Una band di settantenni ha portato a casa due ore di concerto senza soste, snocciolando grandi brani suonati tutti dal vivo e dal vero. Energie spese bene, senza strafare ma nemmeno risparmiandosi. E va bene così. Si ipotizzava la presenza di Bruce Springsteen, che non si è visto. Rimpianto? No.


I come incassi: settantuno mila spettatori paganti, biglietti dagli 80 euro in su (e anche un po' in giù all'ultimo tuffo). Scontro sull'indotto, con gli organizzatori che dicono venticinque milioni e la Questur no scusate, commercianti e albergatori che dicono solo tre milioni e piangono miseria. Poverini.

J come Jagger: incontenibile e immenso. Inutile tentare di criticare il frontman. Il bisnonno balla, canta, corre, si dimena, saluta, bacia, incita, stecca e si riprende subito, sculetta e gufa calcisticamente. Un cinico? Un avido? Una caricatura? Sì, tutto questo e molto altro: ma un performer divin scusate, satanico.

K come Keith: Richards sorride sempre come un ragazzino e arpiona le corde della chitarra, fa rifiatare Mick cantando un paio di canzoni nel momento forse meno interessante dello show (ma c'è da capirlo, ha sicuramente imposto un proprio spazio da "solista" nel tour). Magari non farà magie, ma il suo stile lo porta sempre appresso.


L come logistica: i servizi (sanitari e igienici) non sono mancati, lo spazio del Circo è stato organizzato in modo abbastanza sensato e l'assenza di problemi e proteste lo conferma. Il pubblico è stato civile in tutte le fasi. Magari il transennamento dell'intera zona circostante e il traffico bloccato non hanno proprio fatto fare i salti di gioia ai romani...

M come Mayer, John: il chitarrista del Connecticut (classe '77) è stato un ottimo supporter e anzi, ha suonato persino troppo poco rispetto al suo talento. Il suo intervento durante Respectable dona una marcia in più al brano e anche al concerto stesso.

N come necrofilia: quando si parla di live dei Rolling Stones, saltano sempre fuori quelli che fanno battutine sulla loro età, sui "cadaveri rianimati" eccetera. Tanto per allietare il loro rimanersene a casa. Ne riparliamo quando questi brillanti battutisti avranno settant'anni...


O come orario: precisi come orologi svizzeri, esattamente come indicato nelle comunicazioni ufficiali, iniziano alle 21:50 e chiudono alla mezzanotte (anzi, 23:55). La precisione cronometrica potrebbe far dubitare della buona fede (e dare l'impressione della timbratura del cartellino), ma la resa dello spettacolo restituisce l'idea di un grande spettacolo ben oliato.

P come Paint it black: oh, a me è dispiaciuto che non fosse in scaletta. In tanti ci sono rimasti male.

Q come Quanto? Affitto del Circo Massimo: 8 mila euro (vedi anche alla lettera D). Suite all'hotel St Regis per la band: 14 mila euro. Per lo staff di 50 persone, 48 stanze affittate.

R come rock: il grande spettro morto e risorto miliardi di volte, dato per spacciato e sempre vivo, antipatico e fastidioso. C'era, il rock, al concerto degli Stones? Certo, sotto forma di fantasma, aleggiava sull'esibizione di una band che ne è emblema e carcassa ancora viva e pulsante. It's only rock'n'roll but we like it; che vi piaccia o meno, il rock è anche un grosso dinosauro col fiato corto che fa ballare e cantare migliaia di persone di tutte le età.


S come Stones: loro, Jagger - un nome un'icona - Keith, ma anche ovviamente Ronnie Wood (67 anni, un ragazzino) e l'eroico percussionista Charlie Watts (73 anni, er vecchino) si sono ritrovati con il vecchio compare Mick Taylor, altro uomo chiave delle esecuzioni virtuose di brani come Midnight Rambler.

T come turnisti: bravi, bravissimi, e bene ha fatto Jagger a presentarli in pompa magna. Dal bassista-monstre Darryl Jones al sassofonista Bobby Keys, passando per la voce potente della splendida Lisa Fischer.

U come uscita: a fine concerto, dal Circo Massimo, nessun problema. Dalla "zona" del concerto, è andata un po' meno liscia. Con la metro che aveva la linea locale sospesa e pochissimi taxi, il deflusso è apparso come il momento peggio organizzato (o comunque agevolato).


V come volumi: abbiamo iniziato con l'acustica, chiudiamo con i volumi... spesso e volentieri gli strumenti hanno sovrastato la voce di Jagger, con l'esempio clamoroso della chitarra di Keith in Symphathy for the devil che ha oscurato la voce del frontman in ogni ritornello!

Z come zona rossa: iniziata ben 24 ore prima del concerto, ha creato un sacco di disagi al traffico ed è stato un provvedimento forse eccessivo. Comodo per chi doveva arrivare a piedi, per carità, ma l'area interdetta al traffico era davvero enorme!


(si ringraziano per le foto: Roberto Panucci, gli utenti Tumblr supercassiew, fueledbybands, mattcow84)

lunedì 16 giugno 2014

I cambiamenti di Dylan Dog e una generazione allo specchio

Sono uno di quelli che è cresciuto con Dylan Dog.

Nel 1986 avevo appena 4 anni, ma non appena superata la decina, ho aggirato i divieti genitoriali e mi sono immerso nella collezione completa dello zio, ricavandone brividi e grandi insegnamenti (anche letterari).

Da mesi il dibattito intorno al secondo fumetto più venduto della Bonelli (e terzo in Italia, dopo Topolino) riguarda l'incombente restyling orchestrato dal creatore (e alter-ego) dell'indagatore dell'incubo, Tiziano Sclavi, e dal nuovo curatore da lui fortemente voluto, Roberto Recchioni.

Come sempre accade quando si va a toccare un personaggio entrato nell'immaginario collettivo di un Paese, si è scatenato il putiferio. Hardcore fans, lettori storici, ma anche acquirenti occasionali per loro stessa ammissione, hanno puntato il dito contro molte delle scelte che dovranno traghettare Dylan nella sua nuova fase (la fase due, appunto).

L'ispettore Bloch in pensione, Dylan e Groucho alle prese con i pc e i telefonini, un linguaggio più moderno... molto è stato detto e scritto (spesso negativamente e a sproposito, dato che su alcune cose ancora non ci sono dettagli precisi) e questo sposta la questione su un grande tema: quello del cambiamento.

Dylan, se ci pensiamo bene, è (editorialmente) quasi un trentenne. Dopo trent'anni di vita e di onorata attività nelle edicola, avrà pure il diritto di cambiare, no? In questo senso le reazioni della stragrande maggioranza (attiva sui social) rispetto al fumetto dell'old boy sono diventate uno specchio della nostra società: impaurita dal cambiamento, intransigente sullo status quo, diffidente verso le novità. Incapace, spesso, di accettare anche solo l'idea di quel necessario salto nel vuoto che i prodotti creativi devono avere (e per esteso, anche il mondo del lavoro, della conoscenza e via dicendo...)

Un personaggio che vive continuamente il presente come Dylan non può pretendere di non veder cambiare il mondo attorno a sè e di adattarsi ad esso. Una perpetua Londra degli anni '80 sarebbe grottesca e ridicola. Le storie prive di un background solido e riconoscibile per i lettori. Per i nostalgici ci sarà una testata appositamente creata (resa o lungimiranza dell'editore? Magari oculata strategia).

Quello che molti stentano anche a capire (e non so perchè) è che è impossibile per un'azienda come la Bonelli prendere anche solo remotamente in considerazione l'idea di vedere le vendite in costante calo o di chiudere la serie. Non si butta via uno dei migliori personaggi dei fumetti, e il suo potenziale, per il rifiuto di molti fan di accettare novità (ma saranno poi molti? O come spesso accade vale la regola della maggioranza silenziosa?)

Da lettore che ha abbandonato la testata al numero 200 e che da poco ha ripreso a leggere, chiedo poche cose a Recchioni e i “suoi” autori. Che poi coincidono con quanto dichiarato dalla Bonelli: un ritorno alle atmosfere poco politicamente corrette, più sottili ed inquietanti. Un Dylan non più predicatorio e bacchettone, schiavo delle sue peculiarità e malinconico, ma curioso, sensibile, brillante ed emotivo come è stato nei suoi momenti migliori.
Splatter e poesia, certo, ma filtrati da quella visione disincantata e ironica del mondo che riusciva ad alleggerire il brutto del mondo (che non è il mostro, ma ciò che gli ruota attorno).
Insomma, tornare al personaggio e al fumetto che ci piace leggere (come, va detto, spesso ha già sottolineato Recchioni: vedremo se l'operazione riuscirà!)

Con buona pace di quelli che pur di non veder cambiare niente preferiscono un lento e doloroso declino.

Poi, beh, ovviamente il fumetto più venduto d'Italia è Tex, l'immutabile per eccellenza. E vende quasi il doppio di Dylan. Fate le vostre riflessioni... (che io non vorrei suonare ridondante e retorico)


Giuda ballerino!

sabato 14 giugno 2014

Gomorra finisce bene (la prima stagione) [SPOILER]

A volte si fa presto a gridare al capolavoro.
In Italia, poi, è ancora più facile, considerato il panorama desolante delle serie tv.
Eppure lanciarsi in lodi sperticate di Gomorra – La Serie è assolutamente doveroso: 12 episodi senza cali di tensione, senza sbavature. Compatti, emozionanti, sceneggiati e diretti magnificamente.

Il prodotto di Stefano Sollima, supervisionato dallo stesso Roberto Saviano, ha finalmente dimostrato (perchè, purtroppo, nel nostro Paese c'è sempre bisogno di dimostrare) che si può e si deve produrre fiction di altissima qualità senza ridursi a famiglie buoniste, nonni rincoglioniti, preti simpaticoni e bellocci/e inespressivi. Che il pubblico è pronto a premiare queste opere con ascolti altissimi. Che forse è sempre stato pronto, ma non gli è mai stato proposto un prodotto all'altezza dei concorrenti internazionali.

Adesso non ci sono più alibi. Certo, Gomorra – La Serie è stato uno sforzo titanico: quasi tre anni per pianificare, scrivere, trovare gli attori e girare la prima serie. Tutto nel nome di un verismo che è la vera formula magica del successo, dalla scelta di girare nei luoghi reali a quella di non romanzare troppo vicende e personaggi. Lo spettacolo c'è, eppure è tutto molto credibile. Certo, Shakespeare è dietro l'angolo, alcune soluzioni sono ovviamente tese a dare carisma ai protagonisti, ma il fatto che lo spettatore si ritrovi immerso in un universo dove tutti sono rappresentanti del male, senza vie di scampo o possibilità di identificarsi in un modello positivo qualunque, è importante e decisivo.

Tutti, in Gomorra, sono ammorbati da egocentrismo, ambizione, violenza, sopraffazione, rabbia, paranoia, assenza di scrupoli: nessun personaggio principale ne esce con un briciolo di dignità e di umanità. Persino chi, all'inizio, sembra essere il meno peggio si rivela essere il più spietato. Questo rende il telefilm un concentrato di tensione che cresce fino ad un finale orchestrato benissimo.

Una regia calibrata, una fotografia che cattura ed esalta ogni singolo dettaglio, un cast di volti sconosciuti perfettamente credibile e facce prese dalla strada di una bravura sorprendente. Tra queste ultime, il giovanissimo Danielino, ovvero Vincenzo, protagonista dei due episodi più emotivamente forti, che nella vita vera ha lasciato la scuola e poi è stato arrestato. Cose che alimentano polemiche, forse, ma che in quei luoghi sono all'ordine del giorno e confermano, se vogliamo, la necessità di mostrare certe aberrazioni che quotidianamente accadono sotto il cielo di Napoli (e non solo).

Dalla lotta per il potere agli agguati, dalle vendette alle estorsioni, dai figli indegni dei genitori ai giovani che non sanno cos'è il rispetto, dalle faide interne agli accordi trasversali per le scissioni. Non manca niente, in questa prima stagione di Gomorra, che si permette di terminare con un picco narrativo di una sparatoria durante una recita scolastica, un evento che altrove sarebbe potuto risultare esagerato ma che qui funziona perfettamente.


Adesso, col clan dei Savastano decimato dalla direzione impulsiva e inadeguata del figlio Gennaro (Genny!) - ferito gravemente ma non ucciso dal traditore Ciro di Marzio - e il ritorno dal capo don Pietro, sfuggito con un massacro al 41/bis, le cose si faranno ancora più serie. Il boss rivale, Salvatore Conte, avrà di fronte un avversario agonizzante ma non domo: e Ciro, che si è bruciato da entrambe le parti, che fine farà? Attendere sarà sfiancante, ma diamo piena fiducia al team di Gomorra per una seconda stagione all'altezza delle aspettative.

giovedì 12 giugno 2014

A Hard Day's Night, i Beatles e il cinema che inventa il videoclip

I Fab Four... Tutti per uno, come il titolo che all'epoca (correva il 1964) fu affibbiato in Italia alla prima pellicola dei Beatles.
Beatles che, all'interno di A Hard Day's Night, anarchico film del bravissimo regista Richard Lester, non vengono mai chiamati Beatles.

Se c'è un grande merito da riconoscere alla regia di Lester - che aveva 32 anni, una decina in più dei suoi protagonisti - è quella di essere assolutamente in anticipo sui tempi, frenetica ma sempre puntuale, precisa e anarchica, come il ritmo stesso della pellicola.

In pratica, Lester ha inventato con il cinema il linguaggio dei videoclip del futuro. Vedere per credere: tutto quello che è venuto prima (e moltissimo di ciò che seguirà) sembra paleolitico e ammuffito.

Grazie al montaggio dell'abile John Frenzy Jympson, il regista si sbizzarrisce in inquadrature sbilenche, dettagli in primissimo piano, salti logici, giochi con il fuoco, immagini che durano lo spazio di un battito di ciglia. Muore la noia e nasce uno stile.




Il resto è storia: pellicola con trama esile, collage di gag, che documenta e certifica la nascita della Beatlemania, che sfrutta narrativamente una trasferta londinese per un concerto, dopo il primo tour americano della band. A Hard Day's Night è anche un film girato in piena libertà ma scritto benissimo (da Alun Owen), con battute fulminanti e un uso dell'improvvisazione eccellente. Senza contare il bianco e nero più che mai brillante di Gilbert Taylor, che avrebbe poi lavorato con i più grandi registi dell'epoca.

Snobbato dalla critica, fu un clamoroso successo al botteghino (costo: mezzo milione di sterline, incasso: dodici milioni) e conquisto due nomination agli Oscar, senza contare l'acquisizione dello status di cult
E poi, beh, è un film dei Beatles.

Fab Four sono perfettamente a loro agio, anche se Paul si dimostra al solito il più smaliziato. Lennon gioca al ruolo dell'anticonformista sognante e sopra le righe, George è il bravo ragazzo con la testa tra le nuvole e Ringo... è Ringo, sorridente, positivo, malinconico all'occorrenza. Bravissimo anche il cast di supporto di veri attori, tra cui il terribile "nonno di Paul" irlandese, irriverente, pronto a insultare i poliziotti, seminare zizzania nel gruppo e frodare le fan dei loro amici (Wilfrid Brambell).


Ma tantissime scene sono da antologia: oltre ad alcuni siparietti nonsense e surreali, da citare almeno la scena in cui George viene scambiato per un suo sosia e introdotto da un produttore senza scrupoli che vuole usarlo come testimonial per convincere i ragazzi a comprare delle camicie orrende. Quando il losco figuro cita una sua collaboratrice e beniamina, una che di lavoro fa la trendsetter (non vi suona già nelle orecchie fashion blogger?) George risponde: ma noi quella la prendiamo per i fondelli, è noiosa, è falsa. Stavo per commuovermi in sala: all'epoca gli idoli pop potevano permettersi - almeno sullo schermo - di criticare quello che i loro omologhi sono costretti a fare, cinquan'tanni dopo.



Infine, vedere i ragazzi di Liverpool giocare a quattro cantoni sulle note di Can't buy me love regala allo spettatore di oggi quella
consapevolezza dolceamara di un'innocenza ad un passo dal perdersi del tutto: era sul pianerottolo un successo incontrastabile che avrebbe cambiato ogni cosa.

Le canzoni del film: A Hard Day's Night, I Should Have Known Better, If I Fell, I'm Happy Just to Dance with You, And I Love Her, Tell Me Why, Can't Buy Me Love, I Wanna Be Your Man, Don't Bother Me, All My Loving, Ringo's Theme (This Boy) e She Loves You.  

domenica 8 giugno 2014

Silicon Valley, prima stagione: carino, sboccato, ridicolo e intelligente

Ne avevo parlato qui dopo l'episodio pilota.
Adesso, poco dopo la fine della (breve) prima stagione, decreto ufficialmente che Silicon Valley è uno dei migliori prodotti tv di questo anno, e che è una visione quasi obbligatoria.
Il quasi è ovviamente legato all'interesse per la satira social(e) sulla tecnologia, i suoi guru e sul mondo dei programmatori più o meno nerd e sfigati.
Condizione che può essere agevolmente aggirata se si considera l'approccio assolutamente satirico e scanzonato dell'autore della serie, quel Mike Judge che ci ha regalato Beavis & Butthead, Office Space e Idiocracy.
Il che significa umorismo intelligente ma anche spesso e volentieri sopra le righe quando non addirittura pesante, però stemperato da una vena goliardica a cui si perdona tutto e da una scrittura leggera e sapiente.

Senza mai essere noioso, eccessivamente tecnico o didascalico, Silicon Valley è un prodotto tv che è riuscito a bilanciare perfettamente la parte “drama” con quella “comedy”. Anzi, portando la comedy della quotidianità dei protagonisti nel drama della costruzione di un'impresa e della lotta contro il Golia rappresentato dalla potente società multimediale avversaria.
Richard, Erlich, Dinesh, Gilfoyle e Jared sono personaggi vivi che acquistano tridimensionalità attraverso dialoghi spontanei e credibili. Nonostante l'esagerata stranezza dei comportamenti e le vicende spesso ridicolo, ci si affeziona subito a questo branco di nerd e alla creatura di Richard, Pied Piper (pifferaio magico) che da app musicale si trasforma in sistema di compressione rivoluzionario e in una società sgangherata che deve dimostrare le palle.
A volte la trama principale viene deviata in quadretti inessenziali ma esilaranti, mentre continua ad andare avanti il lavoro principale su Pied Piper; vignette condotte su binari completamente separati (vedi l'episodio sulla fidanzata e la routine satanista di Gilfoyle, da una parte, e il nativo digitale hacker contro Richard dall'altra) ma mai e poi mai qualcosa risulta fuori contesto.

Insomma, Silicon Valley è un gioiellino che riesce a raccontare la classica parabola degli sfigati che riescono a raggiungere il successo nonostante tutto, e anche nonostante loro stessi (tra egoismi, cazzeggio compulsivo, inesperienza e inettitudini) con uno stile da subito peculiare, leggero e gustoso.
Naturalmente, il successo è un punto d'arrivo ma anche e soprattutto un inizio: l'inizio di un'impresa (in tutti i sensi) potenzialmente milionaria, ma anche densa di trappole, pericoli e pochi scrupoli. The Social Network docet.
E qui scatterà la seconda serie, già confermata.

Una prima stagione di otto episodi talmente solidi che, se passiamo sopra l'ovvia necessità di dare un filo conduttore a ciascuno, costituiscono un lungo film da vedersi tutto d'un fiato, con un umorismo e un ritmo in crescendo e alcuni tocchi di genialità, soprattutto per quanto riguarda le figure dei leader tecnologici e la retorica delle app create “per rendere il mondo un posto migliore” e altre frasi fatte e stereotipi del genere.

Recuperate Silicon Valley, non ve ne pentirete.
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