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domenica 8 giugno 2014

Silicon Valley, prima stagione: carino, sboccato, ridicolo e intelligente

Ne avevo parlato qui dopo l'episodio pilota.
Adesso, poco dopo la fine della (breve) prima stagione, decreto ufficialmente che Silicon Valley è uno dei migliori prodotti tv di questo anno, e che è una visione quasi obbligatoria.
Il quasi è ovviamente legato all'interesse per la satira social(e) sulla tecnologia, i suoi guru e sul mondo dei programmatori più o meno nerd e sfigati.
Condizione che può essere agevolmente aggirata se si considera l'approccio assolutamente satirico e scanzonato dell'autore della serie, quel Mike Judge che ci ha regalato Beavis & Butthead, Office Space e Idiocracy.
Il che significa umorismo intelligente ma anche spesso e volentieri sopra le righe quando non addirittura pesante, però stemperato da una vena goliardica a cui si perdona tutto e da una scrittura leggera e sapiente.

Senza mai essere noioso, eccessivamente tecnico o didascalico, Silicon Valley è un prodotto tv che è riuscito a bilanciare perfettamente la parte “drama” con quella “comedy”. Anzi, portando la comedy della quotidianità dei protagonisti nel drama della costruzione di un'impresa e della lotta contro il Golia rappresentato dalla potente società multimediale avversaria.
Richard, Erlich, Dinesh, Gilfoyle e Jared sono personaggi vivi che acquistano tridimensionalità attraverso dialoghi spontanei e credibili. Nonostante l'esagerata stranezza dei comportamenti e le vicende spesso ridicolo, ci si affeziona subito a questo branco di nerd e alla creatura di Richard, Pied Piper (pifferaio magico) che da app musicale si trasforma in sistema di compressione rivoluzionario e in una società sgangherata che deve dimostrare le palle.
A volte la trama principale viene deviata in quadretti inessenziali ma esilaranti, mentre continua ad andare avanti il lavoro principale su Pied Piper; vignette condotte su binari completamente separati (vedi l'episodio sulla fidanzata e la routine satanista di Gilfoyle, da una parte, e il nativo digitale hacker contro Richard dall'altra) ma mai e poi mai qualcosa risulta fuori contesto.

Insomma, Silicon Valley è un gioiellino che riesce a raccontare la classica parabola degli sfigati che riescono a raggiungere il successo nonostante tutto, e anche nonostante loro stessi (tra egoismi, cazzeggio compulsivo, inesperienza e inettitudini) con uno stile da subito peculiare, leggero e gustoso.
Naturalmente, il successo è un punto d'arrivo ma anche e soprattutto un inizio: l'inizio di un'impresa (in tutti i sensi) potenzialmente milionaria, ma anche densa di trappole, pericoli e pochi scrupoli. The Social Network docet.
E qui scatterà la seconda serie, già confermata.

Una prima stagione di otto episodi talmente solidi che, se passiamo sopra l'ovvia necessità di dare un filo conduttore a ciascuno, costituiscono un lungo film da vedersi tutto d'un fiato, con un umorismo e un ritmo in crescendo e alcuni tocchi di genialità, soprattutto per quanto riguarda le figure dei leader tecnologici e la retorica delle app create “per rendere il mondo un posto migliore” e altre frasi fatte e stereotipi del genere.

Recuperate Silicon Valley, non ve ne pentirete.

martedì 22 aprile 2014

Silicon Valley, ecco i veri nerd (e non gli imborghesiti di The Big Bang Theory)

C'erano una volta Leonard, Sheldon, Rajesh e Howard... ti ricordi quei quattro sfigati della Caltech? Ma sì, dai... quei nerd che adesso si sono imborghesiti, fidanzati o sposati, hanno adottato dei cani e non fanno altro che avere problemi con le loro compagne o quelle che cercano di rimorchiare. Ecco, quelli lì.
Per carità, sempre simpatici, eh. Però...
The Big Bang Theory, ormai, ha dalla sua soltanto personaggi entrati di diritto nell'immaginario collettivo che ancora tengono botta dopo sette stagioni, ma che a questo punto rasentano pericolosamente la macchietta e sono più impegnati nei loro problemi di coppia e/o di sfiga (non per nulla tutti sono accompagnati mentre a Raj è stato affiancato il povero Stuart) che in attività realmente nerd. Lasciamo perdere il cosplay facilone, intendiamoci: sono lontani i tempi delle citazioni criptiche e delle puntate dedicate a L'uomo che visse nel futuro di George Pal. Ma questo è il bello e il brutto del successo planetario, che soddisfa e legittima ma costringe ad annacquare i toni.
La HBO ha dato il via da poche settimane ad una nuova (mini)serie, che non ha alcuna pretesa di entrare in competizione con TBBT (sono 8 episodi di mezz'ora, con trama orizzontale) ma che inevitabilmente solleva confronti, non solo per il soggetto ma anche per i suoi contenuti.
Silicon Valley parla di Richard e del suo gruppo di amici, rintanati nella casa di uno di loro già vagamente “inserito” nell'ambiente, Erlich. Richard, nel creare un'app musicale, finisce per trovare un algoritmo di compressione lossless che potrebbe rivoluzionare il mondo informatico. Da lì scatta l'offerta indecente del suo datore di lavoro, il milionario Gavin Belson della compagnia Hooli, che comprerebbe per 10 milioni di dollari, ma arriva anche la proposta dello scontroso, controverso e geniale imprenditore Peter Gregory, uno che gli lascerebbe molta libertà e la possibilità di creare una sua stessa compagnia. Ora, c'è un problema: Richard è un vero nerd che vive fuori dal mondo e non sa che cosa sia fare un deposito in banca o creare un'idea di business plan. Riuscirà, con l'aiuto (?) degli amici, a non mandare tutto in fumo, nonostante sia tanto maldestro da essere il suo peggiore nemico?
Come vedete, la storia è molto lineare ma di ampio respiro: gli otto episodi comporranno una vera e propria avventura, quindi niente “app della settimana” o “fraintendimento con la tizia di turno”. Già qua la differenza è abissale.
Ma è impossibile non notare la sottile ironia in alcuni momenti con la quale SV omaggia e sbeffeggia TBBT, come ad esempio nel gustoso momento in cui il CEO miliardario di Hooli spiega al suo guru spirituale i dubbi che lo assalgono osservando i nerd, che si spostano in gruppi di cinque composti da elementi ricorrenti come un bianco, un asiatico, un grassone, uno con la barba strana e uno dell'India dell'est... Un modo sottile per svelare la “ricetta calcolata” di alcuni format, ai quali neppure la stessa serie HBO comunque si sottrae (c'è l'indiano... ma c'è anche un satanista laveyano).
Quello che piace di SV è il suo essere sicuramente meno mainstream e di presentare situazioni, battute e riferimenti ad un background che, seppure assai conosciuto specialmente in Usa, necessita di un po' di passione e di approfondimento. Dall'altro lato, non è una serie che mira a far sganasciare dal ridere (ma era abbastanza prevedibile), puntando ad un umorismo più elaborato ma non per questo meno attaccato all'insipienza sociale dei protagonisti. Vedi la gag del medico, col povero Richard torturato dai discorsi di chi lo sta visitando, o l'imbarazzante siparietto con la spogliarellista, a dire il vero un espediente po' usurato.
La cosa che però risulta più interessante è il quadro d'insieme, uno spaccato attualissimo e avvincente delle storie che spesso ci sentiamo raccontare, l'idea rivoluzionaria, la startup con gli amici, la lotta alle multinazionali del software, le mille app che nascono e muoiono ogni giorno...
Al momento il prodotto funziona, e spero che possa proseguire con questo passo e migliorare col tempo: la qualità e la destrezza nella scrittura ci sono tutte.

sabato 1 marzo 2014

The LEGO Movie: Pelase, another brick in the Cinema!

The LEGO Movie è un sogno che si realizza: ma aspettate! Non soltanto a livello più “elementare” (un lungometraggio sui mitici mattoncini della nostra infanzia) ma anche su un piano più complesso e articolato. 
Un film che si basa su giocattoli ma non è uno spot, assume piena dignità e valenza e assesta qualche sonoro schiaffo a cartoon ben più blasonati, fossilizzati nelle loro strutture standard; un film che gioca sull'effetto nostalgia ma mai, neppure per un momento, puzza di vecchio o gioca la carta della strizzata d'occhio; un film, infine, che è una gioia per gli occhi dei piccoli ma anche un grande luna park per i grandi, con citazioni non banali e comicità di tutti i tipi.
La mia non sarà una recensione solo elogiativa, con i LEGO sugli occhi: la pellicola dei due ormai navigati esploratori della commedia, animata (Piovono polpette) e non (21 Jump Street) Phil Lord e Chris Miller, dimostra però una grandissima maturità e soprattutto vale il prezzo del biglietto in tutto e per tutto. Possiamo discuterne quanto vogliamo, ma l'arte dell'intrattenimento ha raggiunto nella forma dell'animazione orizzonti che spesso il live action si sogna: ritmi serrati con gag a raffica, ipercitazionismo, follia narrativa e sperimentazioni impensabili in un prodotto “per grandi”, pessima definizione per indicare un modo di fare cinema ancora radicato in modo stretto al target.
The LEGO Movie è uno spasso: tutto è realizzato con mattoncini – stop motion e computer grafica -, qualsiasi cosa che si muove sullo schermo è scomponibile (dall'acqua al cielo!) ed ha un fortissimo senso di anarchia alla base, riscontrabile dagli universi paralleli dove le costruzioni si fanno via via sempre più amatoriali e sghembe. Il bello è che tutto avrà una spiegazione in vista di una parte finale intelligentissima e coerente, che non svelo per lasciare una sorpresa che aggiungerà ancora più livelli di lettura a questa pellicola che ha già sbancato meritatamente in più di mezzo mondo.
C'è poi un approccio inedito anche nell'affrontare la parabola del protagonista: Emmet è un comunissimo “omino LEGO” operaio, e già questo ci sembra impossibile nell'epoca in cui ormai ogni personaggio reale delle costruzioni ha un'identità definita: in più, vive in un sistema regolato da leggi ferree (le istruzioni!) che tutti rispettano. Ma Emmet è proprio comune, quasi vuoto: ogni abitante della cittadina ha almeno una caratteristica saliente, lui no. Eppure viene individuato da una profezia pronunciata dal vecchio stregone Vitruvius come Mastro Costruttore, destinato ad utilizzare il Pezzo Forte contro il subdolo e cattivo Presidente Business (!!!) e il suo esercito di robot e scheletri, in procinto di utilizzare l'arma finale e definitiva contro i mattoncini, il Kragle.
Anche qui, l'intuizione brillante di utilizzare come antitesi della fantasia e della libertà d'azione dei LEGO una colla (“KRAzy GLuE” con lettere sbiadite e/o pronuncia storpiata di bambino) permette molte evoluzioni di trama e soprattutto crea nello spettatore quel feeling vissuto almeno una volta nella vita di amore-odio per il caos e la fragilità, e l'istinto a voler “incollare tutto” per dare ordine.
C'è poi l'incipit, una distopia fantastica degna della miglior fantascienza, il cui assunto di fondo (rispettare le istruzioni = vivere felici) viene portato avanti per tutto il film e ribaltato con segno opposto per poi essere di nuovo riabilitato, in modo speculare, nel finale, creando un corto circuito di senso che non abbandona lo spettatore e lascia una giusta ambiguità (troppa creatività senza un'obiettivo = anarchia, caos, distruzione?).
Il tutto, condotto con mano sapiente dai due sceneggiatori-registi Lord e Miller, che orchestrano un cast variopinto (come non citare il meraviglioso Batman? Le comparsate di Han Solo e di uno stranito Lando Calrissian? E il povero Lanterna Verde costantemente sfottuto da Superman...) senza mai perdere la bussola, rispettando una narrazione fruibile da tutti ma aggiungendo elementi godibili dai più grandi, toccando vette di follia e nonsense grazie a gag fisiche e verbali con un fuoco di fila anche troppo esasperato. Quando poi si rallenta, non si rischia la secca della stanchezza ma si sente forse la mancanza di ulteriori approfondimenti: ma è una pecca di poco conto, di fronte a uno dei migliori cartoon degli ultimi anni e, ne sono certo, quello che sarà ricordato come uno dei migliori del decennio che stiamo vivendo.

In attesa dell'ormai certissimo sequel...

martedì 5 novembre 2013

V per Vendetta o A per Armistizio? Il volto di Guy, di V e del 5 novembre

Un bel faccino. Teneramente imbarazzato.
Remember, remember, the fifth of november...
Sì, un attimo. Cosa ricordiamo davvero? V per Vendetta e il suo protagonista, con i suoi attentati ad un regime orwelliano, o la vera origine della filastrocca, un fallito attentato dinamitardo di inizio 1600 che avrebbe distrutto il parlamento inglese, ucciso il Re ma anche altre migliaia di persone nel raggio di un chilometro?
E per quel motivo dovremmo farlo, scusate? 
 
Guy Fawkes mentre pensa. A cosa, non si sa.
A me non va di ricordare la congiura delle polveri (leggetevela su Wikipedia), più volte cavalcata pretestuosamente in America dalla politica. Mi piace V per Vendetta, è una bella opera (il fumetto, il film meno), mi piace anche come il messaggio si è trasformato, anche se non in tutte le sue sfumature. Sì al pacifismo, no ad azioni criminali. Anonymous e tutti quelli che stanno dietro la maschera di Guy Fawkes, vero colpo di genio degli ultimi vent'anni (la maschera, non Guy Fawkes), non fanno che dimostrare che i simboli sono più potenti di ogni altra cosa. Milioni di persone sanno che quella faccia beffarda significa “anarchia, protesta, anti-establishment, anti-capitalismo” eccetera, ma pochissimi conoscono davvero i messaggi che gli attivisti vogliono veicolare, quando ci sono.
Che io ricordi o che abbia trovato traccia in giro, il primo ad utilizzare l'iconica V e la maschera di Guy Fawkes a fini di protesta politica è stato – udite udite – Beppe Grillo. Uno che di mestiere fa(ceva?) il comico e che ne sa più di marketing virale ed emotivo che di buona educazione.
Yeaaaah! Vaffanculooooooo! FACDESISTEM!
Tra l'altro, per il primo, dichiarato e bellicoso intento di “far saltare il Parlamento” con il Vaffanculo-day e la nota campagna (sacrosanta negli assunti, per carità) Parlamento pulito, il buon Beppe aveva scelto nel 2007 come data simbolica l'8 settembre... ovvero quando, nel 1943, il generale Pietro Badoglio, a capo del governo italiano, proclamò l'armistizio (insomma... gli Alleati lo imposero a suon di bombe, ma vabbè) gettando nel caos la penisola e col re Vittorio Emanuele III che se la diede a gambe. Ma questa è storia, non ci serve! Servono simboli, immediati, riconoscibili, blockbusteriani, replicabili: il faccione di Badoglio, triste come un cocker, non era adatto. Ecco dunque l'americanissimo V, anarchico guerriero contro un regime totalitario. Cioè tutto l'opposto della maschera che indossa, simbolo di Guy Fawkes, ex soldato fervente cristiano che voleva ammazzare quanti più protestanti poteva, assieme al Re (d'Inghilterra, che era dei “loro”). Una congiura che non avrebbe portato lui e i suoi sodali a mettere sul trono Topolino. Era una faida, e tale sarebbe rimasta. 
 
E adesso sono cazzi.
Nel fumetto originale di Alan Moore, scritto nei primi anni '80, V vuole vendicarsi delle torture e dei torti subiti per motivi particolari; è idealista, sì, ma se ne fotte di essere un leader. E' carismatico, ha una visione, ma non la impone – e manca la “discesa in campo” del suo popolo mascherato. Questo succede nel film del 2005, possibile solo perchè creatura degli allora lanciatissimi Wachowski bros nonostante i due vomitevoli sequel di Matrix, e del loro regista-protegee James McTeigue. Un film ad alto budget con messaggio destabilizzante, terroristico,
Badoglio. Non esattamente un volto memorabile.
anarchico... una rarità, a meno che non si consideri, un po' come avvenne con il punk, lo sfruttamento di un sentimento allora emergente ai fini di marketing. Che poi la cosa abbia avuto una grandissima eco (ma ogni maschera venduta, se non tarocca, fa guadagnare la Warner), forse più di quanto immaginato, è certo.

Curioso il caso italiano. Pensate se non ci fosse stato il film americano di V per Vendetta. Avremmo dovuto ripiegare su qualcosa di nostrano sull'8 settembre: ma il meglio che avremmo potuto avere sarebbe stato un low-budget distribuito in tre sale, in costume, con comparse inette e cavalli spelacchiati, grondante di retorica e inamidato come un calzino, girato da Pasquale Squitieri. Probabilmente con la maschera unico elemento ben realizzato da, chessò, Sergio Stivaletti. A come Armistizio. Sfigatooooo....

Ecco. E allora Beppe te lo scordavi il successo. Gli americani stanno sempre troppo avanti. Anche... beh, nell'anarchia organizzata.
Buon 5 novembre...
Google
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