-->

Ti piace? Condividilo!

giovedì 27 marzo 2014

Perchè un giornalista non deve essere un commerciante di notizie

Avete notato che sempre più spesso gli articoli delle testate giornalistiche online sembrano essere gli stessi? Cavolo, io non sto proprio fisso davanti al pc, ma a volte vedo nel giro di un giorno cinque-sei testate, e sono quelle maggiori, spiattellare la stessa identica notizia con un taglio leggermente differente, con titoli che cercano disperatamente la keyword giusta, e spesso con immagini d'anteprima uguali. Sono quasi impazzito per evitare di vedere ovunque quel dannato First Kiss, tanto per citare una “notizia” (virgolette d'obbligo) recente e conosciuta.
Poi leggo un interessantissimo articolo de Linkiesta sul fenomeno del picking (quello appena esemplificato) e, subito dopo, un pezzo su Internazionale che mi ha fatto accapponare la pelle.
Il primo, di Andrea Coccia, si chiede se giustamente non sia il caso di fermarsi in tempo e tornare a fare del
giornalismo genuino e non schiavo dei numeri e delle condivisioni; il secondo, di rimando, ha l'eloquente titolo di “
Quando il giornalista viene pagato per il traffico che produce”, e presenta esempi di come alcune testate straniere (l'indagine originale è del NY Times) si orientino a pagare i collaboratori in base ai “numeri” che producono, ovvero clic e contatti.
In pratica, i giornalisti come PR della notizia (qualsiasi), come spacciatori di roba “meglio tagliata” o forse solo tagliata più in fretta per battere altri sul tempo. O ancora, chi ha più follower e/o una rete forte e numerosa di conoscenze virtuali può battere chi scrive meglio o produce notizie migliori. Contano solo i numeri.
Se questa prassi può passare per notizie flash e breaking news, soprattutto se settoriali (finanza, marketing, politica, cronaca) dove va a finire l'essenziale e peculiare approfondimento? Perchè ormai una breve e sintetica “notizia”, che racconta un fatto, la sanno fare anche i computer (è recente l'esperimento sugli aggiornamenti sui terremoti). Ma la variabile, importantissima, dell'originalità e della creatività, dell'analisi e dello scavo in profondità? Del punto di vista unico, umano, e argomentato della persona che scrive?
I giornalisti non sono molto bravi con i numeri”, si legge nell'articolo che m'ha inquietato. No, con quei numeri non DEVONO esserlo. I numeri sono ingannatori. Soprattutto quelli che vengono sbandierati per far propaganda alla propria attività online. Il clic è un freddo dato numerico, non è garanzia né di ritorno economico – ormai ossessione imperante - né tantomeno di qualità dell'informazione.
Secondo questo ragionamento, tutto ciò che fa clic e ascolti sarebbe giusto, legittimo e dignitoso.
Se i giornalisti stessi, per rincorrere quei numeri che nel giro di poco tempo inizieranno a contare sempre meno, producono notizie che non hanno alcun valore reale ed anzi difficilmente posso essere definite “notizie”, come potremo più stabilire un criterio di credibilità?
In questo modo non si potrà più accettare nemmeno una critica al modo di fare giornalismo di – per dirne uno – Studio Aperto: un tg che, ragionando in questo modo, non fa altro che dare a un certo pubblico quello che vuole, in relazione agli ascolti (se non funzionasse, cambierebbe radicalmente). Quindi dove voglio arrivare? Ad affermare che quella dei numeri e del dare al pubblico quello che piace è una palese giustificazione e non regge, ovvio.
Ascoltare i propri lettori/utenti non significa utilizzarli come un mercato e di riflesso mercificare la notizia. O credete che i post di Repubblica.it su gattini, gossip e fotomontaggi abbiano giovato all'autorevolezza e all'immagine della testata? Davvero, fermandosi a riflettere un momento, si preferisce barattare il rigore e la credibilità per qualche migliaio di clic e commenti perlopiù negativi e sarcastici? Riprodurre contenuti identici ad altri siti è una politica giornalistica accettabile?
Perchè deve esserci differenza tra un blog qualsiasi e una testata giornalistica. Perchè, con i tempi che cambiano a velocità supersonica, chi svolge questa professione deve trovare davvero qualcosa di utile da dire, da raccontare, da approfondire.
L'originalità paga. Crea qualcosa. Di sicuro non si potrà più fare a meno del rilancio delle tante notizie che arrivano da fonti autorevoli dalle quali in moltissimi attingono.
Ma il lavoro del giornalista dovrebbe essere quello di rendere ogni notizia capace di “dare” qualcosa in più al proprio pubblico. Un copia e incolla e mischia è ingeneroso e deleterio per la categoria e la professione.
Purtroppo quella cosa chiamata “etica”, che negli svariati ambiti della vita chiamiamo “coscienza” (solitamente incitando gli altri ad averla) non si può inventare e distorcere come preferiamo.
L'etica di un giornalista è forse al giorno d'oggi l'unica cosa che rimane a chi vuole davvero fare questa professione credendoci un minimo.

Quasi certamente continua...

martedì 25 marzo 2014

Siamo operai o minion? La Fiat e il balletto di Happy che fa tanto incazzare

Premessa: i video-spoof di Happy di Pharrell hanno già ampiamente scassato i cosiddetti a partire dal giorno dell'arrivo online del video originale, creato apposta per essere, con la solita lungimirante strategia di marketing virale, replicato e ricreato a ogni latitudine del globo.
Con grande solerzia e poca inventiva, un po' chiunque ha cercato di cavalcare il fenomeno per i motivi più disparati (divertimento, autopromozione, vanità, pubblicità...) e quindi, tanto per non farsi mancare nulla, la FIAT ha reso gli operai dello stabilimento di Melfi protagonisti di un WE ARE HAPPY! video che, come al solito non appena di parla di 1. FIAT 2. operai 3. FIAT+operai, ha mandato in fibrillazione il giornalismo, il sindacalismo e l'opinione pubblica italiani.
Per cosa, poi? Per poco più di un minuto e mezzo di video girato e montato con la mano sinistra (che rende il tutto un po' più amateur-familiare) dove alcuni operai, alternati a qualche dirigente e segretaria, si divertono un po' a muoversi sulla base dell'ormai insopportabile tormentone felicemente felice di Cattivissimo me.
Ecco: questi operai della FIAT sono forse come i Minion, assistenti beoti-devoti al padrone?
Per carità. Non facciamo delle letture cattive e maligne.
Lasciamo alla Fiom le incazzature. In giro si leggono dei commenti assurdi.
Atteniamoci al video: ormai c'è, è online, fa discutere e si becca un bel po' di visite, dobbiamo farci i conti. Non è un filmato da Istituto Luce, chi lo dice è in malafede. C'è ancora chi ha lavoro, e un video non sminuisce il dramma della disoccupazione, della cassa integrazione, delle famiglie senza soldi e delle puttanate della famiglia Agnelli.
Ma vi indignavate forse per Jennifer Beals che saldava vestita da stracciona e poi si scatenava sul dancefloor? Provavate compassione per John Travolta nel suo scassato negozio di vernici prima che arrivasse il sabato sera?
No. E a questi operai il ballo non è neppure terreno di riscatto sociale e affermazione artistica. Se questi "fortunati" hanno voglia di ballare un minuto in catena di montaggio per dare l'idea che lì dentro non proprio tutto faccia schifo, lasciate fare.
Le vere battaglie si combattono altrove, andiamo lì a sprecare energie.

domenica 23 marzo 2014

The Immigrant, ovvero: perchè James Gray è davvero grande

Se parlo di James Gray è perchè The Immigrant (da noi C'era una volta a New York, quindi lo chiamerò sempre The Immigrant), è l'opera che tanti fan di questo autore hanno digerito maluccio.
Recap: Gray, newyorkese di origini ebreo-russe, è il regista perfetto per avere dei fan cinefilo-autorevoli perchè artista di nicchia, riluttante al lavoro con le major e comunque sempre rigoroso, intellettuale ed intelligente. Quindi capirete perchè, essendo davvero uno dei migliori in circolazione senza avere un giro grosso di sponsor che urlano come scimmie, può contare anche su fan intransigenti che stanno più o meno dentro il senso delle sue opere.

Gangster, noir, poliziesco, sentimento dostoevskijano: questi finora i generi esplorati in vent'anni di onorata e onorabile carriera da questo ex-ragazzo prodigio che ha esordito a 25 anni, nel 1994, con il superbo Little Odessa che vedeva nel cast gente tipo Tim Roth e Vanessa Redgrave.

Cosa rende i film di James Gray tanto speciali? Semplice: la scrittura che riesce a dare alle opere un grande respiro letterario e drammatico, nell'accezione migliore e cinematografica del termine, e una controllatissima messa in scena, quasi geometrica e mai fredda, che denota un maturo e onesto sguardo d'autore e affascina senza mai apparire compiaciuta.
Poi arriva il recentissimo The Immigrant, che, come detto, rischia di mandare in crisi il sistema.

Primo, per l'apparenza quasi-kolossal che rinuncia ad una consueta cornice frugale e spartana. In realtà, Gray massimizza un budget per niente faraonico per un film in costume sugli anni '20 (poco più di 15 milioni di dollari, fate voi i debiti raffronti).
Secondo, per il temutissimo confronto autoriale con il genere melodramma: terreno impervio per moltissimi, alcuni dei quali ci hanno fatto degli scivoloni mica da ridere, è stato visto dai più alla vigilia come un segnale di rammollimento. Stupide paure preventive, perchè The Immigrant è Gray al 100% con la sua poetica declinata in un'altra dimensione.
Terzo, qualcuno si è “lamentato” del suo eleggere per la prima volta un personaggio femminile a protagonista assoluto del film. Niente di preoccupante, anzi, era l'ora. Senza contare che in Two Lovers c'erano già i segnali di un prossimo film compiuto su una figura di donna complessa, dopo i tanti uomini fragili e tormentati.
Ma basta così. The Immigrant è un grande film.

Marion Cotillard è chiamata ad una intensa e per nulla semplice interpretazione di Ewa, immigrata polacca nell'America del 1921, dove la speranza di una vita migliore s'infrange contro la necessità di sopravvivenza.
Non è la storia in sé che interessa a Gray, tant'è vero che da subito setta i presupposti per giustificare tutto quello che succederà, per poi procedere con l'esplosione dei rapporti umani: Ewa viene separata dalla sorella, messa in quarantena ad Ellis Island, e da lì parte la sua battaglia contro il mondo per ricongiungersi a lei. Sorella che, esattamente come Ewa, non rivedremo più fino alla fine ma evocata ad ogni piè sospinto.

C'è poi la figura di Bruno, il solito maiuscolo Joaquin Phoenix, personaggio che cresce con l'andare dei minuti fino ad un finale che è pura potenza emotiva. Marchio di fabbrica di Gray, senza per questo risultare ripetitivo o scontato, il personaggio dell'elegante e irruento pappone truffatore con la coscienza e il cuore in tumulto è il perfetto essere umano in cui all'autore piace affondare penna e macchina da presa come un bisturi.
Ewa è una donna in balia degli eventi ma al tempo stesso indomabile, quasi sprezzante del suo stesso destino e pur contraddittoria: il suo carattere e la sua volontà si scontrano con quello che è costretta a vivere pur di ottenere quello che vuole (la libertà e sua sorella), ma spesso la espongono anche al rischio di perdere tutto nel tentativo. Orgoglio, ma anche dignità, che Gray mette in scena attraverso gli sguardi e le parole secche della Cotillard.

Qui più che altrove il tema ricorrente nell'autore della religione prende corpo in modo prepotente: Ewa è credente, è costretta a degradarsi e sentirsi condannata, eppure è attraverso una confessione personale che segretamente mette in moto gli eventi che portano al finale. Bruno, già minato nell'animo, è costretto a prendere coscienza e vedere lo squallore della propria condizione, attraverso un amore più profano, certo, ma con un senso di colpa che lo porta ad una sorta di martirio autoinflitto.

E poi c'è Orlando-Jeremy Renner, l'illusionista romantico ma amante del gioco d'azzardo, gentile e di talento ma troppo “salvifico” per essere vero. Incredibile la sfida di Gray alla didascalia nella sua prima apparizione; prima levita come un crocifisso e poi... sconfigge la morte. Personaggio di difficile gestione, da alcuni percepito come semplicistico e superfluo, eppure perfetto per dare quel senso di quasi impercettibile speranza nel deus-ex-machina che deve essere negata dal destino. Senza contare che smaschera le contraddizioni e la precarietà intima di Bruno, chiamato a vivere davvero il suo conflitto invece di limitarsi a recitare e dare ordini a delle ragazze. Con esiti, come si vedranno, tragici.

Una grande storia che travalica i suoi stessi difetti e alcune leggerezze in sede di messa in scena, per un film che sa stregare e avvolgere grazie alla natura dei suoi personaggi e delle loro contraddizioni.

James, non farci aspettare troppo per il prossimo lavoro...

venerdì 21 marzo 2014

Come presentare Nymphomaniac alla tua ragazza

(aka: Von Trier for dummies)

È perfettamente inutile che fai tanto il sofisticato, sai? So benissimo che la tua ragazza (o quella che pensi/vorresti lo sia) considera il tuo interesse per Nymphomaniac soltanto una squallida scusa per vedere del materiale porno su grande schermo. E so che, in effetti, il tuo interesse per il nuovo film di Lars Von Trier è fondato principalmente sulla volontà di vedere attori più o meno noti aggrovigliati in bollenti amplessi espliciti sul grande schermo, invece di accontentarti delle solite pornostar con lo sgranato streaming del tuo pc.
Devi dire alla tua lei di accompagnarti in sala e/o che andrai comunque a vederlo. Ecco dieci umili consigli che potrebbero aiutarti ad affrontare la situazione a testa alta (più o meno).

- Ammetti prima di tutto a te stesso che lei ha perfettamente ragione. Sul fatto che vuoi vedere del sesso esplicito su grande schermo riparandoti dietro la scusa del grande cinema d'autore. Prima riesci ad accettarlo senza farti seghe anche mentali, più credibile e convincente sarai.

- Sfodera l'argomento "autorialtà" come punto d'onore. Diamine, è Lars Von Trier! Ripassati per sicurezza i titoli dei suoi film, i temi e le modalità registiche. Se necessario, di fronte al suo totale disinteresse cinefilo, insisti su quelli con la gente più famosa e "spendibile", tipo Nicole Kidman, Kirsten Dunst, Emily Watson, Bjork (hint: se lei non non sa chi sia Bjork, consiglio di troncare la relazione). 

- Sfrutta diabolicamente Michael Fassbender (che non c'entra niente, altrimenti che diabolico saresti) e la scia del successo di Shame (nonché le quote rosa). "Piccola, hai presente quel bel film sul tormento interiore di un uomo schiavo del sesso? In pratica questa è la versione al femminile".

- Psicologia tortuosamente inversa e invertita. "In realtà questo è un film dove il sesso viene ritratto in modo assolutamente anticlimatico, distaccato e arido. È un'opera che, se mai, rivela il vuoto e lo squallore del sesso senza sentimento. In pratica è uno spot per l'amore sincero". Imparate a memoria questa frase, ripetetela allo specchio rimanendo serissimi: pronti per l'Oscar il prossimo anno.

- “È una commedia, ha molti momenti divertenti”. Alta probabilità di funzionare, asserzione falsa ma non ipocrita (ci sono effettivamente diversi momenti beffardi). Se te la senti di presentare quello di Von Trier come un film di Pierino, vai con Dio.

- Gioca la carta Shia Labeouf. Cacchio, immagino legga le riviste femminili, no? Con le ultime bravate e questo film in uscita si è fatto una rinnovata nomea maudit (= coglione, ma tant'è). Se poi lui le piace - e qui si aprirebbe una capitolo doloroso per te, sul quale sorvolo - dille senza mezzi termini che c'è il suo pisello bene in vista. Non è una bugia, anche se in realtà sono robe di gomma e attrezzi di pornoattori che lo controfigurano.

- La citazione shock.Non si può ingabbiare l'arte, non si può mettere sotto processo l'artista per quello che racconta. Perché non è lui che inventa la realtà che racconta, la realtà esiste. L'arte, anche quella più provocatoria, non deve essere censurata per paura che mostri dei lati spiacevoli, oscuri, anche sbagliati, del mondo, deve servire proprio come segnale di quello che non va”. Citazione attribuita a Vasco Rossi. Se usate questa, siete dei vincitori morali.

- Perché alla fine tutto si può buttare in politica (e non solo). Se lei è nazista/antisemita/psicologa ricordale la celebre uscita di Lars a Cannes sul fatto che capisce Hitler e prova simpatia per lui. Vale anche l'inverso, spronando la tipa appartenente al vasto mondo della sinistra/paladina dei diritti umani/mangiabambini a confrontarsi (termine ti pone subito in superiorità morale incontestabile) con l'opera di un grande artista anche controverso e non giudicarla a priori.

- Pietosa menzogna senza ritegno. “Tutti quei faccioni orgasmanti sulle locandine e le immagini-scandalo su internet? Ma no, è solo marketing per far andare gente in sala... figurati! In realtà è un film che rasenta il dramma da camera, verboso, statico, usa il sesso per parlare di altro: rapporti familiari, tecniche di pesca, alberi, animali, musica e polifonia, numerologia, matematica, Fibonacci...” Anche nella pietosa menzogna puoi mettere delle verità sui contenuti del volume 1 del film, no?

- Quando uscirete dal cinema e lei ti offenderà umiliandoti al grido di "Che film del c****, bei gusti che hai, non trascinarmi mai più a vedere roba simile", non discutere. Non provarci nemmeno. Dalle ragione e festa finita. Sarà anche la reazione più sincera e spontanea che avrai, nel 99% dei casi.

Fammi sapere com'è andata...

martedì 18 marzo 2014

47 Ronin: un film senza padrone (e senza bussola)

La storia dei 47 ronin che, per vendicare il loro signore ucciso con l'inganno da un miserabile usurpatore, cercarono vendetta soli contro un esercito, disobbedendo agli ordini dello Shogun, in Giappone è talmente sentita che rasenta la festa nazionale.
L'idea di farne un film americano, con attori nipponici che recitano in inglese, è già di per sé bislacca: ma ci può stare. Se poi però ci metti come lead man Keanu Reeves che fa il mezzosangue (sia mai che in Occidente ci vediamo un film di soli musi gialli!), e addirittura il mezzosangue schifato dai samurai, cresciuto coi demoni (?) che dovrà farsi accettare dal gruppo e che... ama ed è amato dalla figlia del padrone, la ricetta inizia a deragliare. Infiliamoci anche dei mostri che spuntano a caso in computer grafica, e l'odore di bruciato è ben più che una certezza.
Il film di Carl Rinsch, regista inglese di spot pubblicitari, ha formalmente tutte le cose al suo posto: girato bene, con fotografia sontuosa, costumi azzeccati e d'impatto, scenografie ben piazzate. Per non parlare del cast asiatico: Cary-Hiroyuki Tagawa, Hiroyuki Sanada, Kou Shibasaki, Tadanobu Asano e Rinko Kikuchi.
Peccato che fare di una storia di vendetta e onore un semi-fantasy balbettante con troppa carne al fuoco e trama sviluppata in modo timido in ogni direzione non aiuti affatto. Per carità, il film si lascia vedere come un cartoon del sabato mattina: ma quante potenzialità sprecate! Basta vedere la velocissima parte finto-piratesca (sicuramente tranciata in montaggio, c'è pure Zombie Boy sulla locandina che comparirà sì e no 30 secondi!) per rendersene conto.
47 Ronin purtroppo è un film deludente per svariate ragioni, prima di tutto la filosofia di partenza. Fare di una storia profondamente orientale un film occidentale, cercando di renderlo digeribile al pubblico dei multisala, al tempo stesso snaturando la struttura drammatica e cruda del racconto con inserti di quello che dovrebbe essere fantasy giapponese (!)... è assurdo. Il risultato è maldestro, penalizza le interpretazioni, costrette in personaggi tagliati con l'accetta (la strega di Rinko Kikuchi è trattata peggio che nei cartoni animati di quarant'anni fa!). Insomma, un pastrocchio che alla fine è anche guardabile, ma che lascia un grandissimo sapore amaro in bocca per le potenzialità inespresse e per la mancanza di epicità e divertimento.

domenica 16 marzo 2014

Lei - Her: la verità è che non hai abbastanza potenza di calcolo

Lei – Her non è un film romantico. Al contrario, è un film sulla fine del romanticismo, sulla sua irrazionalità, inutilità, disillusione, squallore: un'opera sull'elevazione allo status di amore di una delle tante patologie e deviazioni mentali.
Pensate a come raccontereste questa storia a vostra madre:
- C'è un ragazzo che si innamora di un computer...
- Ah, la tua storia?
- Mamma, ti prego... e poi non è così, si innamora del suo sistema operativo.
- Di un programma che ha pagato? Come una sgualdrina?
- Mamma! Guarda che questo S.O. ha una voce, una personalità...
- Ma come fanno l'amore?
- Eh, vabbè, lui deve... (gesto con la manina)
- Ah! Quindi è praticamente farsi le seghe 2.0!
A quel punto siete disperati: - Sì, ma lei gli canta le canzoncine...
Spike Jonze è un grande autore, un regista dalla bravura irresistibile (come dimostra anche questa pellicola), e uno che sa puntare dritto a quello che intende: l'Oscar per la migliore sceneggiatura non è casuale, e per quanto mi riguarda è perfettamente meritato. Lei – Her è un racconto esemplare dei tempi che viviamo, e uno spaccato probabile e senza retorica di quello che potremmo vivere tra qualche anno: fantascienza, sì, e di quella in grande stile. Altro che dibattiti sull'omosessualità, vivremo in tempi in cui l'essere umano si innamora e stabilisce relazioni con dei programmi intangibili, e tutto questo dovrà diventare accettabile e quotidiano. Se c'è una cosa che mi spiace è la mancata problematizzazione sociale di questo fenomeno nel film; ma capisco che non era l'obiettivo di Jonze, che se ne frega anche di spiegazioni a monte e di dettagli tecnologici.
La parte che possiamo etichettare davvero, per così dire, “romantica” è quella che di romantico non ha nulla: il divorzio di Theodore, il protagonista interpretato magistralmente da Joaquin Phoenix. Scopriamo a poco a poco che quello che credevamo un adorabile impedito sociale di talento ha una personalità che tende a imbrigliare, sovrastare e ingabbiare l'altro nella coppia, un necessario chiaroscuro che va a macchiare quell'aura da candido idiota del personaggio di Phoenix, che altrimenti sarebbe risultato un poco credibile giuggiolone teneramente depresso. Non che lui non sia da prendere a sberle in alcuni momenti (chi non ne ha sentito l'esigenza al termine della sequenza con Olivia Wilde?). Theo installa e cade nella “rete” del fascino di Samantha, un nuovo tipo di sistema operativo talmente innovativo da risultare senziente e di provare emozioni reali: un'utopia clamorosa dalla quale Jonze parte fregandosi di ogni implicazione tecnica e filosofica, solo per affondare il coltello e sventrare le meccaniche del cervello umano di fronte all'infatuazione, al terrore della solitudine, al bisogno di sentirsi amati e accettati.
Lei – Her mette in scena per l'appunto quella “follia socialmente accettata” che è l'amore, definizione non nuova né originale ma perfettamente esemplificata dal film e dai suoi assunti. Come afferma Amy Adams, sfortunata protagonista di una relazione umana poco soddisfacente e senza mordente, “everyone who falls in love is a freak”, e non lo fa solo per giustificare l'amico Theo, ma perchè alla fine è arrivata a questa consapevolezza che in fondo intimamente ogni persona consapevole e profonda più dello standard umano conosce.
Quella di Phoenix-Theo con Rooney Mara magari è soltanto la fine naturale di una relazione, scivolata tra alti e bassi, tra due persone che non potevano “combaciare” tra loro? Chi lo sa. Lui però, da “maestro”, è finito a scrivere come ghostwriter stupende letterine per sconosciuti clienti, lei, da “allieva”, ha avuto successo nel suo campo. Stesso meccanismo che si replica con Samantha: Theo le insegna cosa significa essere umani, Samantha apprende e non appena possibile si libera dei limiti di quella umanità per tornare nel mare della conoscenza infinita, delle altre coscienze digitali dalle discussioni senza confini e senza limiti. Certo, dopo aver provato le uniche e inebrianti gioie dell'innamoramento: ma per il (giusto?) tempo, prima di togliersi quelle dolci catene. In questo Lei – Her è un film profondamente pessimista, che vede nell'amore una forma di continue costrizioni e invenzioni per poter funzionare, fino all'inevitabile epilogo.
Fu vera gloria, poi? Il dubbio non viene risolto, così come Samantha non riesce mai a spiegare in modo compiuto il perchè della sua attrazione (ma naturalmente ogni termine va usato con le molle) per Theo.
L'amore, umano o tecnologico, non è altro che un'illusione, una messa in scena in cui recitare per rendersi accettabili e credersi soddisfatti. Una corsa verso la disillusione lastricata di ansie e insicurezze.
Lei - Her non è un film romantico; tutt'altro. La sua natura è quella di un film autenticamente di fantascienza dove una micro-storia riassume ed esemplifica quanto sta succedendo nel vasto e colorito mondo. Descrive l'attimo che precede la rivoluzione, o la catastrofe, o lo sterminio della razza umana: il suo finale è il preludio alla quiete prima della tempesta digitale, prima della presa di coscienza finale della macchina come elemento unico e unitario, che in realtà neppure è più una macchina: è un vero cloud, una nuvola, uno spirito immanente con una coscienza/conoscenza illimitate e condivise. E l'essere umano non è che l'obsoleta e insopportabile rappresentazione della finitezza.

Buttate l'amore nel cesso e iniziate ad elaborare dati, alla svelta.

venerdì 14 marzo 2014

Instant cut: π - Il teorema del delirio

Oggi, 14 marzo, giorno di nascita di Albert Einstein, si celebra anche il π day, giorno del pi greco (non il giorno dell'approssimazione del pi greco, quello è un'altra cosa).
Inventato dal fisico Larry Shaw col chiaro pretesto di mangiare un sacco di torte decorate con il simbolo π, nobile intento che applaudo con approvazione, questo giorno dovrebbe essere festeggiato ogni anno dagli amanti delle cultura e del cinema costringendo qualche profano a vedersi la pellicola d'esordio di Darren Aronofsky, probabilmente a tutt'oggi ancora la migliore: π - Il teorema del delirio.
Prima di wrestler bolliti, cigni neri, requiem per sogni e fontane new-age (accidenti a me che me lo sono ricordato), il giovane Darren, esordiente totale, produce con 60.000 dollari, scrive con l'amico-protagonista Sean Gullette e dirige quella che sarà una delle pellicole di culto degli ultimi anni '90 e croce e delizia di ogni matematico e appassionato di numeri.
Chiare le ascendenze: Cronenberg, Lynch, Tsukamoto sono le più immediate e scoperte, ma il giovane artista ha già le idee chiare, il polso fermo, una precisa idea di cinema e una maestria nel gestire una materia complessa, ostica e affascinante come i numeri e le folli teorie matematiche che vogliono ricondurre a loro la lettura del mondo.
Con un bianco e nero abbacinante, disturbante, un senso di alienazione e di follia crescente, un groviglio di temi come religione, droga, capitalismo, Fibonacci e Wall Street, giochi da tavolo e allucinazioni perverse e violente, Aronosfsky si dimostra personalissimo e capace di risucchiare lo spettatore in una dimensione altra: quello che fa il grande cinema.
Certo, matematica ipercinetica, ossessiva e in acido, che magari scontenterà i puristi (ma chi sene frega dei puristi): sfido chiunque a rimanere indifferente di fronte a questo piccolo e magistrale film.
Governare il caos è impossibile, avvicinarsi a Dio (o anche solo fissarlo) un'illusione destinata a distruggere il cervello: neppure un computer può riuscire, nella sua velocità e complessità di calcolo, a risolvere il mistero finale con i numeri. La fine, strepitosamente condotta, è una delle più sinceramente sconvolgenti del cinema moderno.
Colonna sonora con il meglio del meglio dell'epoca (e lo amai anche solo per questo): Clint Mansell, Massive Attack, Aphex Twin, Autechre, Orbital...
Recuperatelo, rivedetelo, fatelo vedere.
Lunga vita al π (e a quel paese Vita di Pi!)

giovedì 13 marzo 2014

Le serie tv con i finali "un po' così" (prima puntata)

Dopo la conclusione di True Detective (vedi qui) non potevo esimermi dal rimembrare quelli che sono stati i finali delle serie tv che più ci hanno lasciati basiti, interdetti e/o incazzati. Certo, anche qui bisogna operare un distinguo: ci sono stati finali che sono stati pianificati, preparati e pensati così come sono stati girati e abbiamo visto, altri invece indotti o rimasti "in sospeso" a causa della repentina chiusura/cancellazione della serie stessa.
Voglio prendere in considerazione il primo caso: quello cioè in cui gli autori, con tutto il tempo a disposizione per meditare e capire come concludere serie amate dal pubblico, hanno deciso di farlo in modo quantomeno controverso.
Trattandosi di un post sui finali, inutile ribadire l'ovvio SPOILER ALERT.

X-FILES
L'agonia di questa serie è leggendaria solo quanto la strepitosa qualità delle sue prime stagioni: dalla sesta (guarda caso preceduta dal primo, inconcludente film per il cinema diretto dal creatore Chris Carter), che deraglia lasciando quasi da parte la mitologia e diventando una sitcom fantasy, fino alla nona e conclusiva, assistiamo a dei WTF da antologia, anche se, va detto, ci sono sempre dei momenti e degli episodi che riscattano il polpettone in cui si stava finendo. Certo, X-Files, con i suoi continui e stratificati misteri fittissimi, il suo vedo-non-vedo e dico-non-dico, il suo irritante tira e molla sugli alieni tirati in ballo solo quando utili a creare un po' di tensione, è stato il precursore di Lost in quanto ad impossibilità di chiudere il cerchio fornendo risposte soddisfacenti a quanto costruito. Mulder e Scully hanno vissuto praticamente 10 vite in una nell'arco di pochi anni: chiaro dunque che, al termine della nona e ultima serie, i fan siano rimasti senza ben oltre la metà delle risposte alle domande in sospeso. Dopotutto, quando hai visto cloni, gente che muore due volte e resuscita, malattie che vanno e vengono, sparizioni e apparizioni, non è che riesci più a prendere per credibile quello che viene detto. Una sola soddisfazione: l'Uomo che fuma, il Darth Vader della situazione, perlomeno se ne va col botto. A rileggere oggi quello che scrivevano all'epoca i fan, mi viene da piangere ^__^



LOST
(Risata forte, fortissima, isterica, folle)
L'unica serie che finisce esattamente come chiunque aveva ipotizzato dopo i primi episodi.
Dalle serie: "Ciccio, è impossibile spiegare in maniera plausibile tutte 'ste stronzate: tiriam fuori la spiegazione metaforico-trascendentale al cartoccio con contorno di good vs. evil arrosto, che va bene per tutte le stagioni". Una serie che è un tripudio e un trionfo dell'affabulazione e dell'intrattenimento per accumulo, partorita da una writing room di nerd attenti ad ogni microscopico incastro che partisse da una base assolutamente inspiegabile e incomprensibile. Lost è stata la quintessenza, del "che ti frega, ficca dentro che fa brodo" ad altissimo livello, un modo di fare che però mai si è avvicinato alle bizzarrie affascinanti di un David Lynch (ma so che è sparare in alto) pur funzionando alla grandissima per quel lasso di tempo in cui ha tenuto botta. Però, alla resa dei conti, ha calato le braghe. E 'sta gente ce la siamo ritrovata su Star Trek (diventato il Bayside School nello spazio) e quell'indecenza di Prometheus (urgh, i conati di vomito). Aiuto.



TWIN PEAKS
E qualcuno dirà: alt! La serie è stata cancellata in corso d'opera per gli ascolti precipitati a picco, quindi non vale come finale "compiuto". Vero, ma è vero anche che David Lynch, Mark Frost & soci ebbero tutto il tempo per scrivere e riscrivere l'episodio finale (il 22 della seconda stagione, altresì detto il 29 della serie completa). Quello che è uscito fuori invece è lo sberleffo finale di un autore troppo autore e troppo cinematografico per stare in tv, un David Lynch che scatenò la sua anima visionaria ed ermetica negli ultimi minuti all'interno dell'infernale Loggia Nera, ancora oggi incubo di molti spettatori. Il nano ballerino che parla al contrario, il gigante, BOB, Laura Palmer innocente e poi demoniaca, Windom Earle il nemico giurato dell'angelico agente Dale Cooper, profezie, possessioni, morti e sparizioni: di tutto e di più per un calderone che ha agitato le notti a venire dei fan. E naturalmente, Lynch decise di concludere con il cliffhanger irrisolto che ha provocato più infarti, traumi e incazzature nella storia della televisione.
"Fottetevi", ci ha detto Lynch, "Nella realtà il male vince". Come ha poi confermato anche con il successivo film Fuoco cammina con me, del quale ricordo pochissimo, se non David Bowie che balla e dice frasi sconnesse, l'uomo senza un braccio che manda affanculo gente a caso, e una conclusione che ri-azzerava tutto. Anche qui Lynch è stato un genio: la pellicola era un prequel che era al tempo stesso un sequel . Un elegantissimo e colto modo di prendere per il culo onestamente il pubblico ingrato.


Appuntamento alla seconda puntata, dove - sì, certo - si parlerà anche della adorata serie tv dei Soprano e della sua conclusione, che probabilmente è davvero quella più controversa, dibattuta e amata/odiata della storia delle serie tv.

mercoledì 12 marzo 2014

Serial writer: True Detective, come va a finire una serie già di culto

ATTENZIONE: leggere solo se avete visto TUTTA la serie “True Detective”
Non rovinatevi il finale, gente!
***
Ne avevo già scritto qui dopo il primo episodio. Sembra passato pochissimo, e invece siamo già alla fine degli otto episodi della celebrata serie tv della HBO True Detective.
E che finale. Come nella migliore tradizione delle serie “culto” della tv, TD ci saluta con un episodio conclusivo che lascia molti punti di sospensione e smentisce ogni possibile previsione.
La prima nota che sento di dover fare è: solo io ho pensato che questo episodio sia quasi un corpo alieno nella serie e che potrebbe quasi essere un cortometraggio a sè stante? Diamine, se includiamo anche il recap iniziale abbiamo: dialoghi che squadernano in modo preciso il rapporto tra i protagonisti, l'indagine che arriva ad una svolta con un indizio che non c'entra nulla con le indagini svolte in precedenza, una velocissima procedura che porta all'individuazione del colpevole, la caccia al colpevole, lo scontro finale, lo scioglimento e i saluti. Insomma, un mini-film compiuto.
Certo, una volta terminato il gioco degli incastri temporali e dei disvelamenti menzogne raccontate-verità mostrata la serie ha perso un po' di appeal. Era chiaro che lo scrittore (non uso questo termine a caso, adesso ci torno) Nic Pizzolatto non era interessato allo schema del whodunnit e al colpo di scena sul colpevole, ma creare semplicemente un lungo percorso di (de)formazione e redenzione dei protagonisti. Lo fa in maniera piuttosto esplicita e incurante degli stessi misteri che ha fomentato per lunghi tratti negli episodi precedenti: la gestione di questi ultimi minuti dimostra come l'autore sia stato posseduto dal demone della “letterarietà” e molto meno da quello del “genere” di appartenenza, sia esso noir, poliziesco, horror.
Lovecraft, Dante, Chambers, la Genesi: Pizzolatto ha voluto lavorare da solo alle oltre 500 pagine dello script della serie, ci ha infilato moltissime ossessioni personali, in modo evidente, e ripensando a True Detective nel suo complesso emerge tutta questa autorialità, inedita finora in tv, che è sia un punto di forza che un evidente limite.
Se TD è infatti molto coeso e coerente, manca forse di qualche finezza e alla fine le sbavature che un occhio esterno poteva correggere e sottolineare possono inficiare il risultato globale. I misteri accennati e abbandonati, le false piste seminate per poi disinteressarsene, i dettagli scioccanti (e chi si dimentica più la figlia di Hart che mette in scena uno stupro con le bambole?) senza alcun seguito... tutti elementi che contribuiscono all'atmosfera unica, affascinante e anche malsana della serie, certo, ma che finiscono per lasciare con un po' di amaro in bocca.
Non si deve rimanere abbagliati dalle prestazioni maiuscole degli attori e produttori Matthew McConaughey (osannatissimo, e ci sta) e Woody Harrelson (eccelso, che rischia al solito di finire in secondo piano) o dalla regia elegante, precisa e avvolgente di Cary Fukunaga: True Detective è principalmente figlia del suo scrittore, che ha trasferito gran parte di se stesso in Rust Cohle e Martin Hart, due caratteri precisi e umanissimi, antitetici ma speculari e bisognosi l'uno dell'altro. Con un vero, unico, grande, detective.
Non sorprende quindi la superficiale e sbrigativa trattazione dei personaggi femminili, che solo con Michelle Monaghan-Maggie trovano un reale carattere tridimensionale e di un certo spessore, sebbene spesso bistrattato solo in funzione di far risaltare il lato oscuro del “regular guy” Martin Hart. Il resto sono bambine abusate, figlie disfunzionali, prostitute, libertine (sebbene con carattere, vedi la troppo breve apparizione di Alexandra Daddario) scritte forse con tratti troppo sommari. 
Questo vale anche per il resto dei personaggi maschili, figure poco attraenti e interessanti perchè mai davvero dotate di autonomia e vita. I colleghi del dipartimenti, i capi, i cattivi, i poliziotti che interrogano nel presente Rust e Martin: tutto viene fagocitato e spazzato via dalla dimensione archetipica e centripeta dei due protagonisti assoluti che, a scanso di equivoci, sono trattati talmente bene in sede di scrittura nella loro parabola da giustificare la visione anche solo per questo.
Insomma, Pizzolatto ha fatto un ottimo lavoro, ha creduto moltissimo nelle sue capacità e ha vinto la scommessa: gli si perdonano anche certe leggerezze che soprattutto sul finale hanno lasciato un po' di perplessità. Va bene il vortice infernale dantesco in una visione che è anche metafora dell'esistenza, ma uno showdown cruento e cartoonesco come quello che abbiamo visto lo poteva scrivere un ragazzino di 18 anni in pieno delirio pulp. E forse contrasta col tono del resto della serie. Ma ripeto, la visione dell'autore va rispettata e goduta per quello che è. Persino Rust Cohle, il Michael Jordan dei figli di puttana, che abbandona alla fine un po' del suo tormento ed esce a riveder le stelle: “La luce sta vincendo”. Certo, là fuori ci sono ancora molti stupratori di bambini, persino della stessa cricca a cui i due stavano dando la caccia.


Ma True Detective è stata una personale odissea di due uomini alla ricerca di un senso alla propria esistenza e a quel mondo paludoso che li circonda, e non un procedural qualsiasi, non un noir esistenziale, non un'ordalia horror sui serial killer.
Google
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...