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martedì 26 agosto 2014

La vita (non) è tutta un SELFIE, neppure in tv!

Quando il cinema e la tv si occupano delle “nuove tendenze”, in particolare di tecnologia, spesso queste vengono approcciate in maniera goffa e poco rispettosa della loro natura.

Figuriamoci quindi cosa può succedere con una serie che si intitola Selfie... sì, avete letto bene, proprio come quelli che vi fate in continuazione. Una serie tv che, dunque, dovrebbe parlare di social media, o almeno affrontarli come motore delle vicende.

Prima di farvi venire l'orticaria – se non sopportate i selfie – rilassatevi: il telefilm, in onda sul canale americano ABC, non tratta di dodicenni o superstar con tendenze megalomani, ma di una sciacquetta di effimero successo online che deve riprendersi da un epic fail...

La cosa migliore di questo pilot (cioè primo episodio) sono i due protagonisti, Karen Gillan (la “storica” Amy Pond di Doctor Who) e John Cho (il Sulu del nuovo Star Trek al cinema).

Lei, Eliza, è una ex-bruttina della scuola adesso trendsetter e maniaca dei social, mentre lui, Henry, un esperto di marketing che odia la falsità dei rapporti online, ipercritico e metodico. Entrambi gli attori sono molto bravi e in parte, e salvano il prodotto dal naufragio alla prima sortita.

Non pensate, però, di trovarvi di fronte ad un prodotto che parla di internet e di web marketing: come i nomi dei due personaggi suggeriscono, siamo dalle parti di una sorta di remake moderno di My Fair Lady. Lei non è autentica e deve ricostruirsi un'immagine, lui è un riservato esperto in materia: uno scontro tra opposti che finiranno per attrarsi, con il mondo dei social a fare da teatro, invece di quello dell'alta società.

Il difetto di questo primo “assaggio” sta nell'indecisione del prodotto nel coniugare l'anima “al passo con i tempi” all'impianto vecchio stile: alla fine l'utilizzo dei social viene affrontato come la solita “diavoleria moderna” che ostacola la vita reale e non rappresenta una fonte di rapporti utili e veri. Non si contano le battute piuttosto banali in materia (tipo lo scambio “La tua mancanza di rapporti sociali ti rende così bravo a lavoro?” “Mi sembra facile non creare connessioni in una città che apprezza solo la connessione wi-fi”) così come le scene in cui gli amici virtuali non rispondono ai messaggi – anzi, non sono empatici! - e non interagiscono quando Eliza si sente giù.

Andiamo, se fosse una vera instagramer/tweetstar per lei sarebbe semplicissimo ricevere feedback positivi anche per il suo stato d'animo contrariato (magari con un selfie without makeup?). Ok, magari non le porterebbero il ginger ale a casa come lei vorrebbe, ma questa cosa del tanti amici online-nessun amico vero è un po' stiracchiata.

Se c'è qualcosa che puoi imparare da questo primo episodio di Selfie, è avere la netta sensazione che i vezzi di scrittura più grossolani siano proprio lo specchio della percezione che hanno “di noi” le molt(issim)e persone non social-pratiche (o non social-enthusiast).

Considerato però che il pubblico di riferimento è quello giovane e smaliziato, come si risolverà questa ambiguità della serie tv?

Beh, io intanto continuo a vederla.

Vuoi leggere ancora qualcosa? Prova...
- Come utilizzare meglio i social (e non deprimerti)
- Prima di pensare al successo... migliora te stesso!

sabato 26 luglio 2014

The Lottery: vinci un bambino nell'era infertile [#otptv]

I bambini non nascono più. La specie umana è a rischio estinzione.

Sto parlando di I figli degli uomini, il bel film del 2006 di Alfonso Cuaron? No, di The Lottery, serie tv appena iniziata del canale americano Lifetime, che ne mutua in pratica le premesse iniziali.

Una distopia, dunque, creata per il piccolo schermo da Timothy J. Sextonuno degli adattatori del romanzo originale della scrittrice P.D. James alla base del film. Come dire... di una buona idea non si butta via niente, anzi, si ricicla.

Il tema è interessante: se davvero il genere umano non potesse più riprodursi e non si trovassero delle spiegazioni, che cosa avverrebbe? 
A differenza di I figli degli uomini, dove il problema era già considerato irrisolvibile e la missione del protagonista aveva un sapore messianico, in questa serie tv scienza e politica, si capisce fin da subito, la faranno da padrone.

Niente per cui gridare al miracolo, intendiamoci: come ogni pilot l'episodio è schiacciato dall'esigenza di presentare tutti i personaggi e dare un'infarinatura del contesto sociale. A pochi anni da adesso, dopo la catastrofe che ha sconvolto il mondo, la dottoressa Alison Lennon riesce a fecondare 100 ovuli. Come ringraziamento, la Casa Bianca la licenzia e si appropria del laboratorio, ma lei, ovviamente, tenterà di agire per conto suo.

Nel frattempo, Kyle Walker, padre single di uno degli ultimi bambini nati sul pianeta, è costretto a rapire il suo prezioso figlio dalle grinfie del Governo che glielo vuole portare via... ah, il piccoletto si chiama Elvis.

Ci sono poi il Presidente degli Stati Uniti, che si affretta a dichiarare una lotteria rivolta alle donne americane per definire a chi saranno impiantati gli ovuli fecondati, la sua consigliera Vanessa Keller e un losco figuro politicante che, capiamo subito, è il primo dei "cattivi" che vedremo agire nell'ombra.

Un primo episodio abbastanza standard, per una serie che potrebbe giovare della necessità di dire qualcosa di originale nello spazio delle 10 puntate previste.
Le idee non sono male, e la fantascienza sociale è pur sempre affascinante: resta da capire dove vuole andare a parare questa opera. Speriamo che sappia evitare le secche del banale thriller sentimentale e metta altra carne al fuoco.

mercoledì 16 luglio 2014

Delocalizzazione del giornalismo: dall'Albania con furore (forse)

Quanto facevano i furbi, i giornalisti, occupandosi delle questioni della delocalizzazione di fabbriche e produzioni varie, pontificando (quelli dalla verve opinionista) sul fatto che "il prodotto italiano deve essere italiano", magari sicuri del fatto che scrivere è una professione dove si sta comodi nei "paesi nostri"?

Beh, cade un altro tabù del giornalismo: quello italiano si farà (anche) a Tirana, Albania, con l'esperimento di cui è portabandiera l'ex conduttore di Matrix Alessio Vinci.

Agon Channel, questo il nome della nuova realtà (con capitali italici di Francesco Becchetti), scende dunque nell'agone mediatico e promette di farlo con uno slogan controverso: "Saremo la Ryanair dell'informazione". Cioè, low-cost... ma con quali vantaggi per l'utente tv, dato che dei "valori aggiunti" che sono il sale del giornalismo, Ryanair ne fa volentieri a meno?
Se si parla di abbattere i costi per realizzare trasmissioni in studio, allora è ok. Altrettanto importante è richiedere ai giornalisti di sapere confezionare un servizio dall'ideazione alla scrittura, dalle immagini al montaggio video. Sono finiti, cari colleghi, e da un pezzo, i tempi in cui basta battere sulla tastiera.

La mentalità di questo tipo potrebbe dare uno scossone per il benedetto ricambio generazionale. Ma - ovviamente - fare i San Tommaso non è un lusso, in questo caso è un dovere assoluto.

Anche perché, abbattere i costi di produzione va bene, ma abbattere i costi del giornalismo vivo (quei poveri esseri umani che producono e diffondono informazione) sarebbe un inutile, ennesimo massacro della categoria. Pedalare va bene, ma almeno una borraccia d'acqua per scalare le montagne ci vuole!

Agon Channel ha già fatto partire i casting per fiction e reality. Non proprio una tv alternativa, dunque (manco gli si chiede, in fondo si presenta come generalista).
Ma rimaniamo a quello che ci interessa. Dice Vinci: "Non c'è spazio per grandi redazioni e gente che realizza un servizio al giorno". 
Sacrosanto. Ma da lì a strizzare per pochi spicci giovani e meno giovani volenterosi giornalisti, il passo è breve.

domenica 6 luglio 2014

Halt and catch fire: ecco l'erede di Mad Men, in salsa nerd anni '80

Catturare la vostra attenzione per parlare di Halt and Catch Fire?
Si gioca tutto su una semplice operazione matematica: Mad Men + The Social Network + nostalgia targata 1980.
E sulla sigla iniziale, strepitosa:




Ci siete ancora? Questo vuol dire che la nuova serie del canale americano AMC (sì, proprio lo stesso di Mad Men) può fare al caso vostro. Arrivata a metà della corsa (5 episodi su 10 della prima stagione) è il momento di parlare di questa giovane creatura che potrebbe avere un lungo e luminoso futuro. 
Come specificato in apertura, la formula con la quale si può grossolanamente bollare la serie creata da Christopher Cantwell e Christopher Rogers è quella del patchwork di successi legati a effetto-nostalgia, sfide tecnologiche e ambizione.

Ricostruzione d'epoca, lettura “epica” di un contesto storico e dei suoi protagonisti, classica struttura romanzata per incollare lo spettatore allo schermo. 
Siamo nel 1983, IBM domina il mercato dei computer: uno spregiudicato e misterioso ex dipendente del colosso informatico si presenta alla posta della società Cardiff Electric e si fa assumere, grazie al suo curriculum e la sua parlantina. E' Joe McMillan (Lee Pace), giovane e rampante agente commerciale, che nel giro di un paio di giorni “incastra” i suoi nuovi boss seguendo un proprio visionario progetto: battere la IBM sul suo stesso terreno, la produzione di computer.
E' un terremoto. Joe è arrivato lì seguendo gli articoli di un ingegnere della Cardiff, Gordon Clark (Scoot McNairy), scottato da precedenti fallimenti nel progettare dispositivi e mettersi in proprio, ma con il fuoco che ancora brucia sotto la cenere.

Con una incredibile maratona di reverse-engineering, i due compilano il BIOS delle macchine IBM e si apprestano all'operazione di clonazione, prima passo verso un azzardato progetto di miglioramento tecnico e di abbattimento dei costi.
Peccato che la IBM non stia con le mani in mano: sfidata dallo stesso McMillan che – a quanto pare – sembra sapere il fatto suo, mette in campo decine di avvocati ma non riesce a fermarli, al contempo costringendo la Cardiff ad andare avanti nell'idea di Joe. Ritirarsi sarebbe ammettere di aver copiato.
La guerra andrà avanti in modo sanguinoso, e non solo a colpi di attentati aziendali. Gordon ha una famiglia e mettendosi in gioco vede tutto a rischio: la moglie, intelligentissima impiegata della Texas Instruments (Carry Bishé), e le due piccole figlie. Quale futuro potranno avere?

Tra Joe e Gordon c'è il terzo incomodo, incarnato da una splendida studentessa ventiduenne che coniuga la figura del genio problematico e del punk asociale: Cameron Howe (Mackenzie Davis), fisico da modella e capelli alla Twiggy in versione The Clash. Personaggio dalla credibilità pari a zero (donna, bellissima, ribelle, appassionata di codice binario: un po' troppe comode coincidenze) che però funziona perché utilizzato col contagocce e contrapposto a due uomini “ordinari” che mettono a nudo le loro fragilità – Gordon insicuro e irrequieto, Joe bugiardo e dall'oratoria fatta di slogan da venditore.

La scrittura della serie è eccellente per quanto riguarda la struttura drammatica, a partire dalla scelta di mettere un carismatico imbroglione come McMillan al centro della storia: è lui a spiegare tutte le mosse più ostiche agli altri, e al tempo stesso allo spettatore, con linguaggio semplice e di stampo pubblicitario.
A lui si contrappongono Gordon, introverso, taciturno e caratterialmente debole e la complessa Cameron, sempre in bilico tra la macchietta disadattata e la ragazza profondamente sensibile.

E Joe, misterioso, affascinante, consumato dal “sacro fuoco” della visionarietà, come figura è ancora in bilico tra il magnifico millantatore e il sognatore disincantato. Di certo è un tipo disposto a tutto per raggiungere i suoi obiettivi e capace di utilizzare qualsiasi persona come strumento. Non per questo riesce sempre a uscire come vorrebbe dai casini che crea, e il suo atteggiamento gli farà da subito pagare caro alcune leggerezze.
Le ombre gettate sul suo passato (l'impiego precedente, l'anno in cui è sparito, il padre...) potranno sicuramente reggere sul lungo termine se ben giocate. Per adesso suonano molto come “paletti narrativi” già sentiti, ma siamo pronti a farci stupire.

Gli anni '80 del secolo scorso sono più evocati che mostrati, esattamente come in Mad Men: si gioca sugli interni, su case e uffici, abbigliamento, capigliature e tecnologie assortite (batticuore per il cameo del Grillo Parlante della Texas Instruments!). L'effetto, oltre che esageratamente generoso verso un decennio che ha visto cose allucinanti nell'estetica, è anche un pochino blando, però non me la sento di dire che il setting è anonimo. Alla fine, quello che conta è il risultato finale e, sommati tutti gli elementi, posso dire che il contesto storico risulta abbastanza credibile.

Halt and catch fire è una serie che promette di coinvolgere ed emozionare tutti, dagli appassionati di storia dell'informatica a quelli che cercano un drama sofisticato e con personaggi sfaccettati.
Bel lavoro. Adesso attendiamo il resto della stagione per tirare le somme.

giovedì 3 luglio 2014

House of Cards, prima stagione: il fascino discreto della strategia (politica)

La politica, questa sconosciuta
Per quanto il cinema, la letteratura e la tv da decenni continuino a ritrarla come la più sporca, falsa, orribile attività umana, la realtà riesce a fare sempre di peggio.
Nonostante questo, gran parte del pubblico è sempre pronta a meravigliarsi, quando si va a mostrare con la macchina da presa – o la penna - quello che accade dietro le quinte del teatrino perbene e rispettabile della politica. O almeno, di quella politica che ancora almeno un teatrino di facciata ce l'ha, non come accade in Italia...

E' arrivata da noi, trasmessa da Sky, la prima stagione di House of Cards, tratta da un celebre romanzo di Michael Dobbs (datato 1989) già tradotto per la tv nel lontano 1990 dalla BBC inglese. A tirare le fila c'è Beau Willimon, uomo di teatro e autore del testo alla base di Le Idi di Marzo, bel thriller politico di George Clooney. L'opera ha sconvolto il panorama della serialità, essendo prodotta da un certo David Fincher per il canale online di streaming Netflix, ormai vero e proprio concorrente delle tv “vecchio stile”.

A partire dal testo di Dobbs (di esperienze repubblicane) gli autori di House of Cards mettono in scena le macchinazioni del capogruppo al Congresso del Partito Democratico Frank Underwood e della sua lenta, inesorabile e articolata “vendetta” nei confronti del Presidente degli Stati Uniti, reo di non averlo nominato da subito Segretario di Stato.

Una storia personale, quindi, alla quale solo qualche volta si affaccia la descrizione dell'attività politica a tutto tondo, sempre e comunque strettamente legata a ciò che Underwood si propone di fare (oppure ottenere). Esigenze narrative a parte, sembra infatti che Frank riesca a dedicarsi a tempo pieno alle sue losche trame senza lavorare mai per il Congresso. Ma questi sono dettagli: anche perché, per lo spettatore, lo spettacolo è assicurato, i colpi di scena ben assestati e la soddisfazione di vedere quanto la strategia a lungo termine dà i suoi frutti è un elemento che rende la serie un gioiello.

Cosa ci insegna House of Cards, al di là delle ovvie esagerazioni e delle strizzatine d'occhio al pubblico? Esattamente quello che ci insegna Game of Thrones: i cattivi vincono o riescono comunque a mantenere il potere, mentre chi è onesto, chi è fragile e di buon cuore o chi cerca la verità nel migliore dei casi è una pedina e deve ingoiare rospi, mentre nel peggiore finisce stritolato dal sistema, se non addirittura in una cassa da morto.

Barack Obama ha pregato i suoi milioni di follower di non spoilerare niente e di lasciargli vedere la serie in pace (ergo: piacere narrativo), qualcuno a casa nostra invece ha suggerito ai suoi uomini di studiarsela come scuola di politica (ergo: testo formativo). 

Al di là dell'idiozia della seconda ipotesi, è chiaro che House of Cards, se mai, rappresenta tutto ciò che la politica NON dovrebbe diventare.
Inseguire il potere per il potere, giocare con le vite e le carriere altrui per arrivismo personale, la totale assenza di scrupoli per raggiungere i propri obiettivi... sono quello che spesso la politica è e che invece non dovrebbe essere. House of Cards in alcuni tratti è pura fantapolitica e risolve le situazioni in maniera semplice, ma non si può non pensare cosa accadrebbe se davvero la maggior parte di chi si dedica alla carriera pubblica agisse in certi modi machiavellici.

Come nel caso dell'Alex di Arancia Meccanica, in questa serie siamo chiamati a subire il fascino di un protagonista assolutamente negativo (narcisista, amorale, bugiardo, manipolatore) ma dalla chiare, ammirevoli qualità (dedizione, visione d'insieme, carisma, intelligenza).

La cosa si fa ancora più difficile perché Frank Underwood, interpretato da un attore gigantesco come Kevin Spacey (che da solo vale la visione) ci interpella direttamente. Qui si vede la provenienza teatrale di Willimon: Frank rompe spesso e volentieri la quarta parete, ci guarda, ci sorride, ci mostra i denti, ci spiega cosa pensa e quali sono i “segreti” del mondo della politica. Che sia in mezzo ad un colloquio, ad una cerimonia, alla Casa Bianca, non importa: il tempo si ferma e lui ci parla come fossimo lì con lui.

Espediente ruffiano, facilone e potenzialmente pericoloso, capace di far deragliare la credibilità dello show, e che invece si rivela la carta vincente. Oltre all'altissima qualità della messa in scena, la scrittura e la sapiente scelta di interpellare lo spettatore per dare più spessore emotivo ad un personaggio spesso freddo, cinico e distaccato si rivela il colpo che mette K.O. la concorrenza. House of Cards è Kevin Spacey, non ce ne vogliano gli altri attori.

Robin Wright è Claire, la moglie di Frank, e i due sembrano legati da un accordo di reciproca convenienza che viene da lontano, nonostante tra loro esista davvero un forte sentimento. Anche lei non è certo una bella persona, basti vedere cosa combina con la sua no-profit CWI, eppure ci conquista, sebbene non come il marito.

Altro personaggio importante è Zoe Barnes (Kate Mara), giovane giornalista ambiziosa che vive l'intera parabola che va dal sogno alla disillusione nel corso della stagione. Prima profeta del giornalismo web contro la vecchia carta stampata, poi strumento (inconsapevole) di Frank e sua amante, infine minaccia alle macchinazioni del politico grazie alle indagini da reporter d'assalto. A differenza di Underwood, agisce senza scrupoli per combattere le sue battaglie senza ragionare troppo (registrare un'offesa del capo e metterla sui social network) e dimostra di essere abbastanza immatura, sebbene la sua consapevolezza cresca con l'andare degli episodi.

Del deputato Peter Russo (Corey Stoll), non voglio dire troppo perché è la figura più umana di tutta la serie e quella verso la quale proveremo i sentimenti più forti: vedere per credere (e soffrire).

Ho scritto un po' troppe parole, e forse altre ne servirebbero, ma la conclusione è ovvia: House of Cards è un prodotto imperdibile ed è entrato di diritto nel gotha delle serie tv memorabili e da seguire assolutamente.

Intrattenimento d'alta scuola e decine di spunti di riflessione sul mondo della politica e su come ce lo raccontano: che volete di più?

E adesso? Puoi leggere:
- Il pilot del "misterioso" The Leftovers

- Fargo, la recensione della prima stagione
- Giudizio sulla stagione 1 di Gomorra

mercoledì 2 luglio 2014

The Leftovers, recensione del pilot

C'erano una volta i telefilm misteriosi. Poi arrivò Lost e tutto cambiò.
Per qualche anno ci eravamo convinti che l'accumulo di cliffhanger narrativi, domande senza risposta, paradossi temporali e avvenimenti assurdi potessero reggere un'intera serie tv. E invece, arrivati a tirare le somme, tutto è crollato svelando il piano diabolico: buttare là stranezze e poi navigare a vista.

Il problema del genere mystery-drama è sempre quello: puoi anche avere una bella idea iniziale, ma se non sai bene come giustificarla o spiegarla quando arriverai all'atto finale, è meglio che inizi da subito a spremerti le meningi.

Ora, non so come gli autori hanno intenzione (se ce l'hanno, cosa non secondaria) di spiegare la sparizione del 2% della popolazione mondiale da un momento all'altro, ma è meglio che comincino ad attrezzarsi nella maniera migliore, se vogliono tenere saldo il timone di questa nave che si chiama The Leftovers.

Fattore inquietante: uno degli ideatori e showrunner è il famigerato Damon Lindelof, uno del team Lost (non proprio una garanzia) e sceneggiatore del mio odiato Prometheus. Fattore mitigante: l'altro è Tom Perrotta, l'uomo che ha scritto il libro da cui la serie è tratta. Libro = storia compiuta e di sicuro strutturata in modo decente.

I 10 episodi di The Leftovers, come suggerisce il titolo, andranno a scandagliare le vite tormentate dei “lasciati indietro”, coloro che sono rimasti, nella piccola comunità di Mapleton. Ognuno, in qualche modo, ha perso qualcuno importante, si batte per la verità o semplicemente per sostenere il dibattito tra religione (subito, inevitabilmente, scomodata per questa possibile “assunzione in cielo”) e la scienza.

Peter Berg alla regia del pilot è una garanzia (Cose molto cattive, Hancock, Lone Survivor) ed in effetti regala le cose migliori dell'episodio. La sceneggiatura fa il suo dovere, presentando l'evento sconvolgente all'inizio e poi solleticando la nostra curiosità con flashback che riguardano i personaggi principali. Non ci sono sussulti particolati, se non in un paio di casi, e si cerca piuttosto di puntare sull'intensità delle interpretazioni attoriali, da un azzeccato Justin Theroux ad una catatonica (ma capiremo perchè) Liv Tyler. Ci aspettiamo grandi cose da Christopher Eccleston, che qui compare pochi secondi.

Chi sono davvero gli inquietanti e silenziosi Guilty Remnants? Il “santone” Wayne sarà un visionario o un cialtrone che ha fondato l'ennesima setta? E gli animali, come al solito, saranno i portatori di risposte?

Tutto sta nel vedere se la serie si svilupperà con il risaputo schema dei “misteri su misteri” tanto caro ai creatori di Lost, che lo hanno portato al punto di non ritorno, oppure se saprà dire qualcosa di originale anche a livello di struttura e non soltanto di semplici colpi di scena.

Così com'è, questo pilot è un oggetto inclassificabile e anche oscuro su quella che sarà la futura direzione dell'opera. Staremo a vedere.


Intanto, possiamo godercelo in lingua originale con sottotitoli il 3 luglio e il 10 luglio in versione doppiata su Sky Atlantic.

venerdì 27 giugno 2014

Fargo, la prima stagione tv colpisce ma non stupisce

La serie tv di Fargo è arrivata alla fine.
Il giudizio è complesso: grande qualità e intrattenimento di alta classe, certo, ma anche una miniserie in 10 episodi che ha faticato a trovare un'identità ed una coerenza interna.

L'andamento rapsodico legato soltanto dal sottile filo dell'indagine della caparbia Molly Solverson (Allison Tolman) sull'ambiguo Lester Nygaard (Martin Freeman) ha finito per essere un palcoscenico per l'istrionico Billy Bob Thronton nei panni dell'assassino multiforme Lorne Malvo.
Una figura archetipica, fortemente metaforica (come i fratelli Coen insegnano) ma forse un po' troppo compiaciuta e irrisolta, sebbene dal forte carisma.

Fargo è un prodotto che si è fin da subito rivelato molto legato al prototipo cinematografico, e che ha confermato pregi e difetti del voler trasportare una filosofia prettamente da grande schermo come quella dei Coen (una storia esemplare e circolare in due ore) su quello piccolo.
Non tutto è perfetto. Soprattutto quando si cercano di portare nella serialità le ellissi e i paradossi coeniani, con il risultato che certi personaggi rimangono in sospeso (il killer sordomuto), meccanici e banali (Bill), superflui e irritanti (i due agenti dell'FBI).

La serie, nello spirito, rimane fedele e rispecchia quello strisciante nichilismo e il pessimismo che erano proprio del Fargo cinematografico.
I soldi e l'avidità rovinano la vita, il delitto comporta sempre un castigo, le circostanze rendono l'uomo gretto e spietato, la redenzione è quasi impossibile, la violenza chiama sempre altra violenza in una spirale dolorosa e paradossale.
Al tempo stesso, la serie esalta le qualità della “gente comune” e dipinge un microcosmo dove chi rimane fedele alle proprie idee e ai propri valori, soprattutto quelli semplici ed essenziali, ne esce vincitore (o comunque vivo).

Un esperimento di connubio cinema-tv interessante, perché non si limita ad essere un semplice sequel o remake (sebbene ci sia una strizzatina d'occhio ad una continuity con la pellicola, per chi la becca), ma un'opera che dialoga in modo interessante con il modello di riferimento.
Opera di alta tv che non raggiunge l'eccellenza ma intrattiene con grande intelligenza, cercando coraggiosamente di premere qualche tasto che mina la classica struttura televisiva: vedi le digressioni narrative, il gusto del racconto di aneddoti, le frasi e le situazioni non spiegate ma affidate all'interpretazione soggettiva dello spettatore.


Cast superbo e affiatato, regia puntuale e geometrica, scrittura eccellente hanno fatto il resto: da vedere, con la consapevolezza che forse si troverà l'insieme al di sotto del valore delle sue singole componenti.

E adesso? Puoi leggere anche:

sabato 14 giugno 2014

Gomorra finisce bene (la prima stagione) [SPOILER]

A volte si fa presto a gridare al capolavoro.
In Italia, poi, è ancora più facile, considerato il panorama desolante delle serie tv.
Eppure lanciarsi in lodi sperticate di Gomorra – La Serie è assolutamente doveroso: 12 episodi senza cali di tensione, senza sbavature. Compatti, emozionanti, sceneggiati e diretti magnificamente.

Il prodotto di Stefano Sollima, supervisionato dallo stesso Roberto Saviano, ha finalmente dimostrato (perchè, purtroppo, nel nostro Paese c'è sempre bisogno di dimostrare) che si può e si deve produrre fiction di altissima qualità senza ridursi a famiglie buoniste, nonni rincoglioniti, preti simpaticoni e bellocci/e inespressivi. Che il pubblico è pronto a premiare queste opere con ascolti altissimi. Che forse è sempre stato pronto, ma non gli è mai stato proposto un prodotto all'altezza dei concorrenti internazionali.

Adesso non ci sono più alibi. Certo, Gomorra – La Serie è stato uno sforzo titanico: quasi tre anni per pianificare, scrivere, trovare gli attori e girare la prima serie. Tutto nel nome di un verismo che è la vera formula magica del successo, dalla scelta di girare nei luoghi reali a quella di non romanzare troppo vicende e personaggi. Lo spettacolo c'è, eppure è tutto molto credibile. Certo, Shakespeare è dietro l'angolo, alcune soluzioni sono ovviamente tese a dare carisma ai protagonisti, ma il fatto che lo spettatore si ritrovi immerso in un universo dove tutti sono rappresentanti del male, senza vie di scampo o possibilità di identificarsi in un modello positivo qualunque, è importante e decisivo.

Tutti, in Gomorra, sono ammorbati da egocentrismo, ambizione, violenza, sopraffazione, rabbia, paranoia, assenza di scrupoli: nessun personaggio principale ne esce con un briciolo di dignità e di umanità. Persino chi, all'inizio, sembra essere il meno peggio si rivela essere il più spietato. Questo rende il telefilm un concentrato di tensione che cresce fino ad un finale orchestrato benissimo.

Una regia calibrata, una fotografia che cattura ed esalta ogni singolo dettaglio, un cast di volti sconosciuti perfettamente credibile e facce prese dalla strada di una bravura sorprendente. Tra queste ultime, il giovanissimo Danielino, ovvero Vincenzo, protagonista dei due episodi più emotivamente forti, che nella vita vera ha lasciato la scuola e poi è stato arrestato. Cose che alimentano polemiche, forse, ma che in quei luoghi sono all'ordine del giorno e confermano, se vogliamo, la necessità di mostrare certe aberrazioni che quotidianamente accadono sotto il cielo di Napoli (e non solo).

Dalla lotta per il potere agli agguati, dalle vendette alle estorsioni, dai figli indegni dei genitori ai giovani che non sanno cos'è il rispetto, dalle faide interne agli accordi trasversali per le scissioni. Non manca niente, in questa prima stagione di Gomorra, che si permette di terminare con un picco narrativo di una sparatoria durante una recita scolastica, un evento che altrove sarebbe potuto risultare esagerato ma che qui funziona perfettamente.


Adesso, col clan dei Savastano decimato dalla direzione impulsiva e inadeguata del figlio Gennaro (Genny!) - ferito gravemente ma non ucciso dal traditore Ciro di Marzio - e il ritorno dal capo don Pietro, sfuggito con un massacro al 41/bis, le cose si faranno ancora più serie. Il boss rivale, Salvatore Conte, avrà di fronte un avversario agonizzante ma non domo: e Ciro, che si è bruciato da entrambe le parti, che fine farà? Attendere sarà sfiancante, ma diamo piena fiducia al team di Gomorra per una seconda stagione all'altezza delle aspettative.

domenica 8 giugno 2014

Silicon Valley, prima stagione: carino, sboccato, ridicolo e intelligente

Ne avevo parlato qui dopo l'episodio pilota.
Adesso, poco dopo la fine della (breve) prima stagione, decreto ufficialmente che Silicon Valley è uno dei migliori prodotti tv di questo anno, e che è una visione quasi obbligatoria.
Il quasi è ovviamente legato all'interesse per la satira social(e) sulla tecnologia, i suoi guru e sul mondo dei programmatori più o meno nerd e sfigati.
Condizione che può essere agevolmente aggirata se si considera l'approccio assolutamente satirico e scanzonato dell'autore della serie, quel Mike Judge che ci ha regalato Beavis & Butthead, Office Space e Idiocracy.
Il che significa umorismo intelligente ma anche spesso e volentieri sopra le righe quando non addirittura pesante, però stemperato da una vena goliardica a cui si perdona tutto e da una scrittura leggera e sapiente.

Senza mai essere noioso, eccessivamente tecnico o didascalico, Silicon Valley è un prodotto tv che è riuscito a bilanciare perfettamente la parte “drama” con quella “comedy”. Anzi, portando la comedy della quotidianità dei protagonisti nel drama della costruzione di un'impresa e della lotta contro il Golia rappresentato dalla potente società multimediale avversaria.
Richard, Erlich, Dinesh, Gilfoyle e Jared sono personaggi vivi che acquistano tridimensionalità attraverso dialoghi spontanei e credibili. Nonostante l'esagerata stranezza dei comportamenti e le vicende spesso ridicolo, ci si affeziona subito a questo branco di nerd e alla creatura di Richard, Pied Piper (pifferaio magico) che da app musicale si trasforma in sistema di compressione rivoluzionario e in una società sgangherata che deve dimostrare le palle.
A volte la trama principale viene deviata in quadretti inessenziali ma esilaranti, mentre continua ad andare avanti il lavoro principale su Pied Piper; vignette condotte su binari completamente separati (vedi l'episodio sulla fidanzata e la routine satanista di Gilfoyle, da una parte, e il nativo digitale hacker contro Richard dall'altra) ma mai e poi mai qualcosa risulta fuori contesto.

Insomma, Silicon Valley è un gioiellino che riesce a raccontare la classica parabola degli sfigati che riescono a raggiungere il successo nonostante tutto, e anche nonostante loro stessi (tra egoismi, cazzeggio compulsivo, inesperienza e inettitudini) con uno stile da subito peculiare, leggero e gustoso.
Naturalmente, il successo è un punto d'arrivo ma anche e soprattutto un inizio: l'inizio di un'impresa (in tutti i sensi) potenzialmente milionaria, ma anche densa di trappole, pericoli e pochi scrupoli. The Social Network docet.
E qui scatterà la seconda serie, già confermata.

Una prima stagione di otto episodi talmente solidi che, se passiamo sopra l'ovvia necessità di dare un filo conduttore a ciascuno, costituiscono un lungo film da vedersi tutto d'un fiato, con un umorismo e un ritmo in crescendo e alcuni tocchi di genialità, soprattutto per quanto riguarda le figure dei leader tecnologici e la retorica delle app create “per rendere il mondo un posto migliore” e altre frasi fatte e stereotipi del genere.

Recuperate Silicon Valley, non ve ne pentirete.

venerdì 6 giugno 2014

Game of Thrones - S4E08 a fumetti :-)

The Mountain and the Viper... eh. Eh. (Tristezza).
L'attesa era tutta per il big match, tanto che il mio primo commento è stato:

Invece non è vero. Succedono cose ed è meglio che ce ne freghi. Tipo un personaggio che finalmente si rivela meno ebete di quanto è stato finora:

Poi. Beh, poi c'è - finalmente - LA ROTTURA. Dopo un tormentato rapporto a senso unico, Jorah viene scaricato (senza che manco fosse mai stato caricato, o si fosse scaricato in altri sensi che non fossero artigianali). E quindi un nuovo sfigato deve emergere, e tocca al povero Verme Grigio.

Dopodichè ci catapultiamo al Nord, dove Ramsay il bastardo (non di nascita, di qualità!) conquista senza sforzo (facendo il bastardo spergiuro) la fortezza di Moat Cailin e impressiona suo papà. Scatta il pensierino:
Ed ecco la parte più interessante (non ho detto più eccitante, eh!) dell'episodio, il criptico-allegorico dialogo tra Tyrion - in procinto di conoscere il suo destino by combat - e il fratello Jaime... sugli scarafaggi schiacciati:

Giunse quindi il momento tanto atteso, lo scontro al vertice tra il rancoroso Oberyn Martell e l'assassino di sua sorella Elia, ovvero Gregor Clegane aka La Montagna: con il più classico degli espedienti sadici, ciccio Martin ci fa battere il cuore motivando abbestia il principe di Dorne, portandolo ad un passo dal trionfo, per poi farlo soccombere a causa del suo orgoglioso proposito di avere una confessione plateale. Attraverso un inevitabile, ovvio monologo al pubblico (di King's Landing e di casa) che tradizionalmente porta sempre sfiga:

Siamo arrivati all'epilogo dell'ottavo episodio! Sangue, orrore, tensione: il destino di Tyrion è segnato? Rimangono due palpitanti episodi, nel frattempo se vi è piaciuto 'sto post condividetelo all around the world e scambiamo due chiacchiere su Twitter!
Alla prossima settimana...

Nelle puntate precedenti...

domenica 25 maggio 2014

Game of Thrones - S4E07 a fumetti... (NSFW!)

Dopo un'intensa settimana di passione che mi ha tenuto lontano dal blog, ecco, per la gioia di chi soffre questa pausa che la nostra serie tv preferita si prende sul più bello, Game of Thrones episodio sette nelle mie vignette.
Puntata dove si parla molto ma in modo sostanzioso: intanto Tyrion riceve i NO dei suoi due possibili campioni (Jaime era un'ipotesi molto remota) e infine la proposta inaspettata di Oberyn...

Ma perchè? Semplice, l'avversario è La Montagna, aka Gregor Clegane, colui che ha stuprato e ucciso la sorella della Vipera Rossa di Dorne. Un tipo tranquillo e piccolino:



Nel frattempo, il fratello della Montagna, cioè il Mastino, cioè Sandor Clegane, continua ad andare in giro con Arya che ammazza a sangue freddo un idiota. Sequenze di collegamento e approfondimento di cui non abbiamo diapositiva, ma solo perchè nella scena seguente c'è una strepitosa Melisandre in un dialogo assolutamente ridicolo con la moglie di Stannis (di cui nessuno ricorda il nome, credo), ma non importa (ecco il perchè del NSFW):



Nel frattempo, a Mereen, tutto diventa peggio di una soap triste e deprimente:



Ultimo sussulto con un Petyr Baelish in formissima e una Sansa che non capisce niente, as usual. Chiusura oltremodo d'effetto:
Appuntamento alla settimana prossima, gente!
Come sempre, se volete, condividete con il mondo attraverso i tasti sotto, e poi insultatemi su Twitter.
Ciao!

E se vi piace...
Game of Thrones - S4E06 a fumetti
Game of Thrones - S4E05 a fumetti
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