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mercoledì 2 luglio 2014

The Leftovers, recensione del pilot

C'erano una volta i telefilm misteriosi. Poi arrivò Lost e tutto cambiò.
Per qualche anno ci eravamo convinti che l'accumulo di cliffhanger narrativi, domande senza risposta, paradossi temporali e avvenimenti assurdi potessero reggere un'intera serie tv. E invece, arrivati a tirare le somme, tutto è crollato svelando il piano diabolico: buttare là stranezze e poi navigare a vista.

Il problema del genere mystery-drama è sempre quello: puoi anche avere una bella idea iniziale, ma se non sai bene come giustificarla o spiegarla quando arriverai all'atto finale, è meglio che inizi da subito a spremerti le meningi.

Ora, non so come gli autori hanno intenzione (se ce l'hanno, cosa non secondaria) di spiegare la sparizione del 2% della popolazione mondiale da un momento all'altro, ma è meglio che comincino ad attrezzarsi nella maniera migliore, se vogliono tenere saldo il timone di questa nave che si chiama The Leftovers.

Fattore inquietante: uno degli ideatori e showrunner è il famigerato Damon Lindelof, uno del team Lost (non proprio una garanzia) e sceneggiatore del mio odiato Prometheus. Fattore mitigante: l'altro è Tom Perrotta, l'uomo che ha scritto il libro da cui la serie è tratta. Libro = storia compiuta e di sicuro strutturata in modo decente.

I 10 episodi di The Leftovers, come suggerisce il titolo, andranno a scandagliare le vite tormentate dei “lasciati indietro”, coloro che sono rimasti, nella piccola comunità di Mapleton. Ognuno, in qualche modo, ha perso qualcuno importante, si batte per la verità o semplicemente per sostenere il dibattito tra religione (subito, inevitabilmente, scomodata per questa possibile “assunzione in cielo”) e la scienza.

Peter Berg alla regia del pilot è una garanzia (Cose molto cattive, Hancock, Lone Survivor) ed in effetti regala le cose migliori dell'episodio. La sceneggiatura fa il suo dovere, presentando l'evento sconvolgente all'inizio e poi solleticando la nostra curiosità con flashback che riguardano i personaggi principali. Non ci sono sussulti particolati, se non in un paio di casi, e si cerca piuttosto di puntare sull'intensità delle interpretazioni attoriali, da un azzeccato Justin Theroux ad una catatonica (ma capiremo perchè) Liv Tyler. Ci aspettiamo grandi cose da Christopher Eccleston, che qui compare pochi secondi.

Chi sono davvero gli inquietanti e silenziosi Guilty Remnants? Il “santone” Wayne sarà un visionario o un cialtrone che ha fondato l'ennesima setta? E gli animali, come al solito, saranno i portatori di risposte?

Tutto sta nel vedere se la serie si svilupperà con il risaputo schema dei “misteri su misteri” tanto caro ai creatori di Lost, che lo hanno portato al punto di non ritorno, oppure se saprà dire qualcosa di originale anche a livello di struttura e non soltanto di semplici colpi di scena.

Così com'è, questo pilot è un oggetto inclassificabile e anche oscuro su quella che sarà la futura direzione dell'opera. Staremo a vedere.


Intanto, possiamo godercelo in lingua originale con sottotitoli il 3 luglio e il 10 luglio in versione doppiata su Sky Atlantic.

domenica 8 giugno 2014

Silicon Valley, prima stagione: carino, sboccato, ridicolo e intelligente

Ne avevo parlato qui dopo l'episodio pilota.
Adesso, poco dopo la fine della (breve) prima stagione, decreto ufficialmente che Silicon Valley è uno dei migliori prodotti tv di questo anno, e che è una visione quasi obbligatoria.
Il quasi è ovviamente legato all'interesse per la satira social(e) sulla tecnologia, i suoi guru e sul mondo dei programmatori più o meno nerd e sfigati.
Condizione che può essere agevolmente aggirata se si considera l'approccio assolutamente satirico e scanzonato dell'autore della serie, quel Mike Judge che ci ha regalato Beavis & Butthead, Office Space e Idiocracy.
Il che significa umorismo intelligente ma anche spesso e volentieri sopra le righe quando non addirittura pesante, però stemperato da una vena goliardica a cui si perdona tutto e da una scrittura leggera e sapiente.

Senza mai essere noioso, eccessivamente tecnico o didascalico, Silicon Valley è un prodotto tv che è riuscito a bilanciare perfettamente la parte “drama” con quella “comedy”. Anzi, portando la comedy della quotidianità dei protagonisti nel drama della costruzione di un'impresa e della lotta contro il Golia rappresentato dalla potente società multimediale avversaria.
Richard, Erlich, Dinesh, Gilfoyle e Jared sono personaggi vivi che acquistano tridimensionalità attraverso dialoghi spontanei e credibili. Nonostante l'esagerata stranezza dei comportamenti e le vicende spesso ridicolo, ci si affeziona subito a questo branco di nerd e alla creatura di Richard, Pied Piper (pifferaio magico) che da app musicale si trasforma in sistema di compressione rivoluzionario e in una società sgangherata che deve dimostrare le palle.
A volte la trama principale viene deviata in quadretti inessenziali ma esilaranti, mentre continua ad andare avanti il lavoro principale su Pied Piper; vignette condotte su binari completamente separati (vedi l'episodio sulla fidanzata e la routine satanista di Gilfoyle, da una parte, e il nativo digitale hacker contro Richard dall'altra) ma mai e poi mai qualcosa risulta fuori contesto.

Insomma, Silicon Valley è un gioiellino che riesce a raccontare la classica parabola degli sfigati che riescono a raggiungere il successo nonostante tutto, e anche nonostante loro stessi (tra egoismi, cazzeggio compulsivo, inesperienza e inettitudini) con uno stile da subito peculiare, leggero e gustoso.
Naturalmente, il successo è un punto d'arrivo ma anche e soprattutto un inizio: l'inizio di un'impresa (in tutti i sensi) potenzialmente milionaria, ma anche densa di trappole, pericoli e pochi scrupoli. The Social Network docet.
E qui scatterà la seconda serie, già confermata.

Una prima stagione di otto episodi talmente solidi che, se passiamo sopra l'ovvia necessità di dare un filo conduttore a ciascuno, costituiscono un lungo film da vedersi tutto d'un fiato, con un umorismo e un ritmo in crescendo e alcuni tocchi di genialità, soprattutto per quanto riguarda le figure dei leader tecnologici e la retorica delle app create “per rendere il mondo un posto migliore” e altre frasi fatte e stereotipi del genere.

Recuperate Silicon Valley, non ve ne pentirete.

martedì 22 aprile 2014

Silicon Valley, ecco i veri nerd (e non gli imborghesiti di The Big Bang Theory)

C'erano una volta Leonard, Sheldon, Rajesh e Howard... ti ricordi quei quattro sfigati della Caltech? Ma sì, dai... quei nerd che adesso si sono imborghesiti, fidanzati o sposati, hanno adottato dei cani e non fanno altro che avere problemi con le loro compagne o quelle che cercano di rimorchiare. Ecco, quelli lì.
Per carità, sempre simpatici, eh. Però...
The Big Bang Theory, ormai, ha dalla sua soltanto personaggi entrati di diritto nell'immaginario collettivo che ancora tengono botta dopo sette stagioni, ma che a questo punto rasentano pericolosamente la macchietta e sono più impegnati nei loro problemi di coppia e/o di sfiga (non per nulla tutti sono accompagnati mentre a Raj è stato affiancato il povero Stuart) che in attività realmente nerd. Lasciamo perdere il cosplay facilone, intendiamoci: sono lontani i tempi delle citazioni criptiche e delle puntate dedicate a L'uomo che visse nel futuro di George Pal. Ma questo è il bello e il brutto del successo planetario, che soddisfa e legittima ma costringe ad annacquare i toni.
La HBO ha dato il via da poche settimane ad una nuova (mini)serie, che non ha alcuna pretesa di entrare in competizione con TBBT (sono 8 episodi di mezz'ora, con trama orizzontale) ma che inevitabilmente solleva confronti, non solo per il soggetto ma anche per i suoi contenuti.
Silicon Valley parla di Richard e del suo gruppo di amici, rintanati nella casa di uno di loro già vagamente “inserito” nell'ambiente, Erlich. Richard, nel creare un'app musicale, finisce per trovare un algoritmo di compressione lossless che potrebbe rivoluzionare il mondo informatico. Da lì scatta l'offerta indecente del suo datore di lavoro, il milionario Gavin Belson della compagnia Hooli, che comprerebbe per 10 milioni di dollari, ma arriva anche la proposta dello scontroso, controverso e geniale imprenditore Peter Gregory, uno che gli lascerebbe molta libertà e la possibilità di creare una sua stessa compagnia. Ora, c'è un problema: Richard è un vero nerd che vive fuori dal mondo e non sa che cosa sia fare un deposito in banca o creare un'idea di business plan. Riuscirà, con l'aiuto (?) degli amici, a non mandare tutto in fumo, nonostante sia tanto maldestro da essere il suo peggiore nemico?
Come vedete, la storia è molto lineare ma di ampio respiro: gli otto episodi comporranno una vera e propria avventura, quindi niente “app della settimana” o “fraintendimento con la tizia di turno”. Già qua la differenza è abissale.
Ma è impossibile non notare la sottile ironia in alcuni momenti con la quale SV omaggia e sbeffeggia TBBT, come ad esempio nel gustoso momento in cui il CEO miliardario di Hooli spiega al suo guru spirituale i dubbi che lo assalgono osservando i nerd, che si spostano in gruppi di cinque composti da elementi ricorrenti come un bianco, un asiatico, un grassone, uno con la barba strana e uno dell'India dell'est... Un modo sottile per svelare la “ricetta calcolata” di alcuni format, ai quali neppure la stessa serie HBO comunque si sottrae (c'è l'indiano... ma c'è anche un satanista laveyano).
Quello che piace di SV è il suo essere sicuramente meno mainstream e di presentare situazioni, battute e riferimenti ad un background che, seppure assai conosciuto specialmente in Usa, necessita di un po' di passione e di approfondimento. Dall'altro lato, non è una serie che mira a far sganasciare dal ridere (ma era abbastanza prevedibile), puntando ad un umorismo più elaborato ma non per questo meno attaccato all'insipienza sociale dei protagonisti. Vedi la gag del medico, col povero Richard torturato dai discorsi di chi lo sta visitando, o l'imbarazzante siparietto con la spogliarellista, a dire il vero un espediente po' usurato.
La cosa che però risulta più interessante è il quadro d'insieme, uno spaccato attualissimo e avvincente delle storie che spesso ci sentiamo raccontare, l'idea rivoluzionaria, la startup con gli amici, la lotta alle multinazionali del software, le mille app che nascono e muoiono ogni giorno...
Al momento il prodotto funziona, e spero che possa proseguire con questo passo e migliorare col tempo: la qualità e la destrezza nella scrittura ci sono tutte.

giovedì 17 aprile 2014

Game of Thrones - S4E02 a fumetti :-)

Puntuale come ogni giovedì, torna l'appuntamento con le vignette dedicate a Game of Thrones! (Sì, lo so che è solo il secondo episodio, e la puntualità è tutta da dimostrare...)
Allora, avete godut, ehm, vi siete rammaricati per il lieto event drammatico fatto che ha messo fine alle nozze di Joffrey e Margaery? In pratica, a Westeros è più pericoloso sposarsi che fare la guerra... e chissà che bella piega prenderanno gli eventi dopo questo sconvolgente avvenimento!
Se vi piacciono le vignette, potete lasciare qui sotto un commento, magari con un suggerimento su cos'altro disegnare! E sempre trovarmi su twitter, sono @lucarinigiac, così possiamo anche scambiare due chiacchiere... ciao!






giovedì 10 aprile 2014

Game of Thrones - S4E01 a fumetti :-)

Evviva! E' iniziata la quarta stagione di Game of Thrones!
Per molti (me compreso) iniziano le montagne russe tra aspettative, spoiler, sorprese, re-casting, passioni, amori, incazzature varie, personaggi che schiattano... insomma, George Martin!
Ecco alcune vignette che ho voluto dedicare ai principali avvenimenti del primo episodio che ci riporta nel magico (e un po' perverso) universo di Westeros...
[Sì, lo so: mancano Arya e il Mastino, ovvero i migliori: me ne occuperò più avanti]



mercoledì 12 marzo 2014

Serial writer: True Detective, come va a finire una serie già di culto

ATTENZIONE: leggere solo se avete visto TUTTA la serie “True Detective”
Non rovinatevi il finale, gente!
***
Ne avevo già scritto qui dopo il primo episodio. Sembra passato pochissimo, e invece siamo già alla fine degli otto episodi della celebrata serie tv della HBO True Detective.
E che finale. Come nella migliore tradizione delle serie “culto” della tv, TD ci saluta con un episodio conclusivo che lascia molti punti di sospensione e smentisce ogni possibile previsione.
La prima nota che sento di dover fare è: solo io ho pensato che questo episodio sia quasi un corpo alieno nella serie e che potrebbe quasi essere un cortometraggio a sè stante? Diamine, se includiamo anche il recap iniziale abbiamo: dialoghi che squadernano in modo preciso il rapporto tra i protagonisti, l'indagine che arriva ad una svolta con un indizio che non c'entra nulla con le indagini svolte in precedenza, una velocissima procedura che porta all'individuazione del colpevole, la caccia al colpevole, lo scontro finale, lo scioglimento e i saluti. Insomma, un mini-film compiuto.
Certo, una volta terminato il gioco degli incastri temporali e dei disvelamenti menzogne raccontate-verità mostrata la serie ha perso un po' di appeal. Era chiaro che lo scrittore (non uso questo termine a caso, adesso ci torno) Nic Pizzolatto non era interessato allo schema del whodunnit e al colpo di scena sul colpevole, ma creare semplicemente un lungo percorso di (de)formazione e redenzione dei protagonisti. Lo fa in maniera piuttosto esplicita e incurante degli stessi misteri che ha fomentato per lunghi tratti negli episodi precedenti: la gestione di questi ultimi minuti dimostra come l'autore sia stato posseduto dal demone della “letterarietà” e molto meno da quello del “genere” di appartenenza, sia esso noir, poliziesco, horror.
Lovecraft, Dante, Chambers, la Genesi: Pizzolatto ha voluto lavorare da solo alle oltre 500 pagine dello script della serie, ci ha infilato moltissime ossessioni personali, in modo evidente, e ripensando a True Detective nel suo complesso emerge tutta questa autorialità, inedita finora in tv, che è sia un punto di forza che un evidente limite.
Se TD è infatti molto coeso e coerente, manca forse di qualche finezza e alla fine le sbavature che un occhio esterno poteva correggere e sottolineare possono inficiare il risultato globale. I misteri accennati e abbandonati, le false piste seminate per poi disinteressarsene, i dettagli scioccanti (e chi si dimentica più la figlia di Hart che mette in scena uno stupro con le bambole?) senza alcun seguito... tutti elementi che contribuiscono all'atmosfera unica, affascinante e anche malsana della serie, certo, ma che finiscono per lasciare con un po' di amaro in bocca.
Non si deve rimanere abbagliati dalle prestazioni maiuscole degli attori e produttori Matthew McConaughey (osannatissimo, e ci sta) e Woody Harrelson (eccelso, che rischia al solito di finire in secondo piano) o dalla regia elegante, precisa e avvolgente di Cary Fukunaga: True Detective è principalmente figlia del suo scrittore, che ha trasferito gran parte di se stesso in Rust Cohle e Martin Hart, due caratteri precisi e umanissimi, antitetici ma speculari e bisognosi l'uno dell'altro. Con un vero, unico, grande, detective.
Non sorprende quindi la superficiale e sbrigativa trattazione dei personaggi femminili, che solo con Michelle Monaghan-Maggie trovano un reale carattere tridimensionale e di un certo spessore, sebbene spesso bistrattato solo in funzione di far risaltare il lato oscuro del “regular guy” Martin Hart. Il resto sono bambine abusate, figlie disfunzionali, prostitute, libertine (sebbene con carattere, vedi la troppo breve apparizione di Alexandra Daddario) scritte forse con tratti troppo sommari. 
Questo vale anche per il resto dei personaggi maschili, figure poco attraenti e interessanti perchè mai davvero dotate di autonomia e vita. I colleghi del dipartimenti, i capi, i cattivi, i poliziotti che interrogano nel presente Rust e Martin: tutto viene fagocitato e spazzato via dalla dimensione archetipica e centripeta dei due protagonisti assoluti che, a scanso di equivoci, sono trattati talmente bene in sede di scrittura nella loro parabola da giustificare la visione anche solo per questo.
Insomma, Pizzolatto ha fatto un ottimo lavoro, ha creduto moltissimo nelle sue capacità e ha vinto la scommessa: gli si perdonano anche certe leggerezze che soprattutto sul finale hanno lasciato un po' di perplessità. Va bene il vortice infernale dantesco in una visione che è anche metafora dell'esistenza, ma uno showdown cruento e cartoonesco come quello che abbiamo visto lo poteva scrivere un ragazzino di 18 anni in pieno delirio pulp. E forse contrasta col tono del resto della serie. Ma ripeto, la visione dell'autore va rispettata e goduta per quello che è. Persino Rust Cohle, il Michael Jordan dei figli di puttana, che abbandona alla fine un po' del suo tormento ed esce a riveder le stelle: “La luce sta vincendo”. Certo, là fuori ci sono ancora molti stupratori di bambini, persino della stessa cricca a cui i due stavano dando la caccia.


Ma True Detective è stata una personale odissea di due uomini alla ricerca di un senso alla propria esistenza e a quel mondo paludoso che li circonda, e non un procedural qualsiasi, non un noir esistenziale, non un'ordalia horror sui serial killer.

mercoledì 15 gennaio 2014

Serial writer: TRUE DETECTIVE (2014)

E' iniziato il 2014, con l'anno nuovo ci saranno un sacco di novità sul fronte delle serie tv.
Tralasciando quelle inglesi, che sono quasi tutte over the top, cosa conviene iniziare a seguire nel fitto e variegato, e strabordante, panorama seriale americano?
Il pilot di True Detective promette bene. Serie teargata HBO, quindi sappiamo già le caratteristiche: alta qualità di realizzazione, scrittura, cast. Nessuna censura su linguaggio e scene forti. Approccio adulto e sofisticato.
Ottimo. Creata da Nic Pizzolatto (The Killing) che scrive anche il primo episodio, diretto con solidità da Cary Fukunaga, questa serie promette di essere un thriller di quelli solidi. Cittadina rurale della Louisiana, quei posti americani che sembrano dei limbo, con casupole e famigliole modello che confinano con il nulla, le paludi, il degrado sociale e urbano.
True Detective non sarà una serie d'azione, e lo fa capire bene, ma di profondo scavo nei caratteri.
Lo avrei guardato anche solo sulla fiducia per la presenza di Woody Harrelson, anche produttore esecutivo, a cui si aggiunge, nelle stesse doppie vesti di producer/interprete, Matthew McConaughey.
Entrambi, è evidente, credono moltissimo nel progetto e si tuffano a capofitto in una convincente caratterizzazione dei rispettivi personaggi Martin Hart, sbirro "perbene" locale con moglie e bambine (e anche, naturalmente qualcos'altro) e Rust Cohle, taciturno, tormentato, asociale e brillante nelle indagini. Due caratteri tutti da scoprire, in questo primo episodio benissimo scritti e interpretati, senza banalità e con dialoghi secchi e credibili.
C'è poi la narrazione. Omicidio di serial killer a parte, con le "classiche" ombre sataniste e/o rituali a far da contorno, piace che il racconto proceda per sottrazione, dove poco è detto e molto va intuito. Inoltre, a dare sapore alla pietanza, i due piani temporali che da subito si intersecano: nel 1995 i due indagano sull'omicidio, nel 2012 si ritrovano ad essere intervistati da altri poliziotti, per un caso che forse è strattamente connesso a quanto vediamo. Ma come sono andate a finire le indagini? Perchè i protagonisti, dopo quasi vent'anni, non si parlano?
Intelligentemente, la tensione e i misteri ci vengono fatti percepire e nulla più.
Promosso a pieni voti, adesso True Detective dovrà superare la prova decisiva della tenunta, giocando bene i suoi assi drammatici senza scadere nella noia, nella retorica o nella prevedibilità.
Impresa non semplice, ma le premesse ci sono.

UPDATE: Clicca qui per l'analisi dell'episodio finale e della serie!
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