-->

Ti piace? Condividilo!

Visualizzazione post con etichetta gay. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta gay. Mostra tutti i post

mercoledì 26 febbraio 2014

Arizona junior minds, ovvero: la mia religione è non vendere ai gay

Cosa ho imparato oggi:
La Governatrice Brewer: express yourself
Le leggi antigay servono a tutelare le persone religiose dai gay.
I quali, notoriamente propensi all'esasperazione delle reazioni, se gli dici “no” e li tratti come gli americani facevano con i neri fino a pochi decenni fa, magari nel loro piccolo s'incazzano e ti trascinano in tribunale.
Allora, che facciamo stamani, miei cari parlamentari dell'Arizona? Approviamo una bella legge che punisce chi discrimina?
No.
Il governatore dell’Arizona repubblicana Jan Brewer il 19 febbraio beneplacita il passaggio di una legge che ridisegna i contorni della libertà religiosa e – pepperepé – mette la pistola in mano (figurata, ma tanto siamo in America) ai lavoratori che non vogliono neppure sentir parlare di omosessualità, figuriamoci servire/esaudire i desideri di due persone dello stesso sesso che stanno insieme.
Legalizzate qualcos'altro, néh.
E voi direte: embè? Cavoli loro, perdono dei clienti, fanno meno soldi, il passaparola sarà negativo e tante belle cosine su cui possiamo fare un libro illustrato da colorare coi pastelli.
La verità è che, semplicemente, vince ancora una volta la grossolana ignoranza spacciata per “libertà” e dignità di un credo.
Quante volte ve lo devono ancora ripetere gli americani, per farvelo entrare in testa, che la discriminazione, quando è avallata da un pizzico di religione, è sempre giusta?
Tutto questo casino, nelle ultime ore, per qualcosa che permette ai commercianti di fare obiezione di coscienza e negare a clienti omosessuali i propri servigi, e non avete ancora centrato il punto.
Bravo, Sampei, diglielo coi gessetti!
Lo Stato dell'Arizona deve tutelare i suoi pii e devoti cittadini che, per motivi di credo, non ci pensano neppure a prestare i loro servigi (o vendere qualsivoglia prodotto) a due persone dello stesso sesso. Ma perchè si arriva a questi punti? Semplice, perchè quei malvagi gay odiano sentirsi discriminati e fanno arrivare addirittura in tribunale le personcine che, ne sono sicuro, hanno tanto garbatamente esposto il proprio punto di vista alienandosi dei clienti (che, fossero stati alieni, probabilmente sarebbero stati invece serviti). Cioè, vi rendete conto? Provare a far vincere un principio di civiltà e di umanità, di – oddio, spero non mi sentano i repubblicani e i leghistiapertura mentale attraverso l'ordine costituito? E' troppo. Diamine, LGBT, sparate a quel dannato commerciante omofobo e l'avrete vinta – ma se volete comprare le sue focaccine, beh, vi faranno una legge statale contro.
Contrattacco: lo stai facendo benissimo.
Insomma l'Arizona, come altri Stati USA – tra cui i civilissimi Mississippi, Oklahoma e Tennessee – ha messo in atto, approvando una legge a maggioranza, questa sorta di SCUDO COMMERCIALE ETEROSESSUALE.
Perchè mica vuoi approvare una leggere per rendere la discriminazione un reato? Ehi, non siamo nello spazio col Doctor Who. Sulla Terra lasciateci il nostro modernissimo protezionismo sessuale da difendere con le unghie e con i denti.
Vabbè. Chissà se la governatrice Brewer farà la cosa giusta e metterà il veto tra un paio di giorni, come chiedono molte grandi multinazionali (loro sì che sanno che pecunia non olet e che queste battaglie hanno grande ritorno d'immagine), e persino due grandi repubblicani ex candidati alla Casa Bianca come McCain (no, non quello delle patatine, disattentoni!) e Romney.
La sensazione è che probabilmente si risolverà tutto in una bolla di sapone. Ma il fato che questo tipo di leggi esistano e ancora oggi si tenti di farle entrare in vigore mi fa un po' ridere e piangere.
Anche se sarei curioso di vedere come un negoziante retrogrado sarebbe capace di negare a due bodybuilder che entrano mano nella mano di comprarsi un lecca lecca.

sabato 15 febbraio 2014

Instant Cut: Ellen Page

I am young, yes, but what I have learned is that love, the beauty of it, the joy of it and yes, even the pain of it, is the most incredible gift to give and to receive as a human being. And we deserve to experience love fully, equally, without shame and without compromise.
— Ellen Page, nel discorso per il suo coming out














domenica 9 febbraio 2014

REwind - PASSION - De Palma, natural born thriller (al femminile)

Rachel McAdams e Noomi Rapace si baciano, si sfidano, si odiano, si amano, forse si ammazzano, e poi, forse ma dico forse, vivono due volte. Morboso? Barocco? Hitchcockiano? E chi altri se non Brian De Palma poteva realizzare questa pellicola, figlia diretta dei suoi capolavori del passato?
Su Wikipedia dicono del budget 30 milioni di dollari, ma chi ci crede? Girato in digitale in meno di due mesi, co-produzione con soldi francesi, tedeschi e spagnoli, girato a Berlino, dubito che si arrivi anche solo a meno della metà, anche per ciò che si vede sullo schermo. Il product placement (Apple, anyone?) è talmente esibito da essere una strizzata d'occhio: il Maestro non è più gradito in quel di Hollywood, e si arrabatta come può vendendo il suo nome per girare come vuole e rimanere se stesso. Non che sia un male, in questo senso. La recitazione elementare quando non imbarazzante del cast svela tutta la natura dell'operazione: quello di De Palma è il classico thriller che passa sopra alla forma, più interessato alla sostanza e all' “eleganza del gesto”, per così dire. La fotografia da fiction televisiva poi non aiuta, anche se la prima parte, marcatamente anonima quando non addirittura sciatta, viene riscattata da una seconda dove il regista si sbizzarrisce a creare un'atmosfera malsana con inquadrature sghembe, ombre espressioniste e pare del suo repertorio visivo. Lo spartiacque è la sequenza in split-screen (e cosa se no?) dell'omicidio, che da lì in poi darà il via ad un meccanismo di doppi e tripli salti mortali. Ovviamente esagerati, ovviamente non credibili, ovviamente... De Palma. A cui interessa solo creare l'atmosfera morbosa e dare allo spettatore quei sottili messaggi che piacciono a cinefili e psichiatri. E qui ce ne sono.
Il che può essere un bene come un male. Perchè se questo è un De Palma al cento per cento, è anche un De Palma che rifà il suo cinema, che ricalca quanto detto in passato e lo eleva all'ennesima potenza, che fa sfoggio di tecnica narrativa e di grammatica filmica, depistaggi, doppie e triple letture degli elementi. Sicchè, può risultare tanto genuino ed esaltante quanto stucchevole e vecchio.
Per gli amanti del cinema come tecnica espressiva, Passion è come una visita al museo: De Palma c'è tutto, è ancora vivo, è sempre se stesso. Che poi sia fuori dal tempo può essere, ovviamente, preso sia con amore che con una scrollata di spalle.

domenica 2 febbraio 2014

Dallas Buyers Club - Dal Texas con l'HIV e senza patetismo

Dallas Buyers Club è un buon film. Nell'era in cui sentiamo esaltare opere dalla portata artistica nulla solo perchè sono emotivamente ricattatorie o ricche di buone intenzioni, un film onesto e rigoroso, che concede poco o niente al baraccone retorico sull'HIV, è qualcosa di cui essere felici.
Supportato dall'interpretazione di quello che ormai è l'attore più virtuoso del momento, quel Matthew McConaughey a cui fino a pochi anni fa sputavo sulle locandine, il film di Jean-Marc Vallée, pur se romanzato e con qualche imperfezione nella gestione drammatica, è ben lontano dai toni e dai modi urlati e imploranti di pellicole che mettono l'esibizione della malattia e della sofferenza davanti a tutto.
I motivi sono diversi: innanzitutto la gestazione della storia, durata per ben 20 anni. Lo sceneggiatore Craig Borten ha intervistato il vero protagonista della vicenda, Ron Woodroof, pochi giorni prima della sua morte, nel 1992. Oltre venti ore di fluviale racconto che è stato più volte rivisto e corretto, proposto e respinto. Adesso, con il copione riscritto assieme alla co-autrice Melissa Wallack, possiamo dire che l'attesa è valsa la pena: la sensibilità di Vallée, già autore di pellicole non fondamentali ma comunque interessanti come C.R.A.Z.Y. e The Young Victoria, riesce a trasformare anche le inesattezze storiche e le invenzioni di sana pianta in punti di forza drammatici. Ovvero la presenza del travestito Rayon, interpretato da Jared Leto con ottima aderenza, e il contrappunto etico-legale della dottoressa Eve di Jennifer Garner. Il primo è fondamentale in quanto rappresenta il cambiamento “in meglio” del protagonista: da texano sbruffone, omofobico e razzista, dopo aver scoperto di avere addosso la “malattia dei froci”, Ron dovrà rivedere molte santino non piace a nessuno) un paladino dei diritti dei diversi, imparerà ad accettare le differenze e ad essere un po' meno rozzo. Certo, Rayon sarà suo socio nello “spaccio” di medicine alternative al praticamente letale AZT somministrato ai sieropositivi, ma Ron dimostrerà con i suoi modi ruvidi di avere a cuore le sorti del suo fragile e tossicodipendente amico.
delle sue ottuse convinzioni, e sebbene non diverrà (e meno male, che il
Un film da vedere, perchè solido e ben diretto: le interpretazioni sono di certo il suo punto di forza, con un McConaughey sugli scudi e scheletrico, con un'intensa carica (auto)distruttiva che si trasforma in coraggio di vivere, come recita la tagline del film. A Woodroof furono diagnosticati 30 giorni di vita: visse altri sette anni da allora, portando avanti una lotta contro un sistema di ignoranza, di speculazione e di scarsa sensibilità. Non un eroe, perchè la battaglia fu condotta anche e soprattutto per ragioni personali, ma una storia che ha un significato profondo da raccontare.
Jared Leto, sebbene molto bravo, mi è parso un po' sopravvalutato dalla critica, per un lavoro sul personaggio forse un po' schematico e già visto. Non contano solo i chili persi: voglio dire, pensiamo al povero Cillian Murphy di Breakfast on Pluto (un Neil Jordan dimenticato dai più).
Curiosità: il film è stato girato in soli 25 giorni con un budget contenutissimo di circa 5 milioni di dollari. Nei soli Stai Uniti ne ha per adesso incassati più di 20 milioni. Scommessa riuscita, dunque, e probabilmente ancora più premiata negli incassi all'indomani degli Oscar.

Dare to live.

giovedì 7 novembre 2013

La vita di Adele - Dire (poco), fare (abbastanza), baciare (moltissimo)

C'è un cinema che si avvicina moltissimo alla vita reale, la contempla e la rende addirittura più viva e pulsante della realtà stessa sbattendoci in faccia l'eccezionalità delle cose quotidiane, che spesso vediamo con occhi superficiali, svogliati, disinteressati e poco curiosi. Specie se si tratta della vita degli altri.

Quello che Abtellatif Kechiche compie con La vita di Adele (La Vie d'Adèle, ma anche Blue is the warmest color) è un miracolo in bilico tra l'arte naturalistica e il cinema nella sua accezione più nobile. Utilizza infatti il mezzo della settima arte per raccontare la vita.
E che vita: credetemi, ho visto più vita nei personaggi di Adele che in certe persone reali.

E' curioso che Adele sia, nei fatti, un cinecomic: è tratto (molto liberamente) dalla graphic novel francese Il blu è un colore caldo di Julie Maroh, che il regista sceglie non a caso di tradire fin dal titolo. Il racconto di Kechiche non è infatti un romanzo di formazione incentrato sulle tematiche omosessuali, la discriminazione, la lotta e l'accettazione di sé: è, come limpidamente il titolo squaderna, la vita di una ragazza di nome Adele – dove a “vita” si sovrappone “amore”, in ogni sua sfumatura, ovvero l'unica cosa che valga di essere raccontata.

Vediamo la nascita delle sue pulsioni, l'oggetto del desiderio, il corteggiamento, il raggiungimento, la routine, il dramma, la fine: momenti sempre dipinti con una cura maniacale nel giocare in leggerezza e sottrazione nei dialoghi, ma di mostrare fino all'esasperazione i singoli momenti capitali di questa storia, di questa vita, senza timore alcuno con le immagini, con picchi di lirismo da spezzare il cuore. E in tutto questo, non c'è l'ombra di maniera o formalismo.

Una direzione d'attori incredibile, con una Adèle Exarchopoulos semplicemente indescrivibile: i primi piani insistenti, onnipresenti seppure mai soffocanti, catturano ogni sua minima espressione che mai, e dico mai, appare artefatta o frutto di recitazione impostata. Se sia un dono o un caso, o semplicemente un incontro del destino tra pellicola, autore e interprete, questo rimarrà un bel mistero, e va bene così. Anche Lea Seydoux offre una grande prova, ma di fronte – vedere per credere – all'immensa rappresentazione che Adele fa di Adele (!) ogni altro aspetto passa in secondo piano.

Insomma, un'opera-esperienza da vivere e assorbire ad ogni costo. Anche se non tutto torna, com'è giusto, com'è probabilmente pianificato. I genitori di Adele che spariscono dalla scena, la mancata problematizzazione dell'omosessualità (risolta in un litigio a scuola? Solo questo? Magari fosse sempre così), le scene madri che – giusto un paio – alle volte rischiano di sembrare troppo “madri”... un clima un po' borghese e pulito per un contesto che avrebbe potuto essere dipinto in altro modo, rendendo anche il mondo che sta intorno ad Adele ed Emma vivo e pulsante quanto la loro relazione, che però, è essenzialmente quello che interessa a Kechiche. Le emozioni come il sesso, esplicati e rappresentati nei dettagli ma non aridamente spettacolarizzati. L'amore, probabilmente. Il tradimento, visto come intrinseco e ineluttabile in una storia iniziata con il desiderio ardente e qualcosa che manca all'interno (non per nulla si inizia sui banchi di scuola con una spiegazione sul “colpo di fulmine”). Con Adele che non sa perchè lo ha fatto, con Emma che ipocritamente nega ma che sapeva benissimo di essere prossima a farlo a sua volta. Così inizia e così finisce, come ci aspettiamo, quasi. Ma con un universo, prima, in mezzo e dopo.

Altra nota di rilievo: si vede a malapena il cellulare, nessun flirt via sms, nessuna email, niente foto da taggare, niente status su Facebook per ingelosire. Siamo nel 2013 (si balla pure su Likke Li) ma, necessariamente, si deve rimanere fuori da tempo. Una scelta di campo del regista francese che parla chiaro. Nei sentimenti, come negli horror e nei gialli, la tecnologia è sempre la nemica

E se nella vita reale si piange tanto per amore, figuratevi quanto si piange qua. Praticamente, se qualcuno avesse voglia fare il conto dello screen time delle lacrime sul volto di Adele, la mia sensazione è che potrebbe essere una buona metà di pellicola. E credo che alla fine le lacrime potrebbero persino guadagnarsi il nome sulla locandina. Ma anche qui, nessuna esagerazione, e noi che viviamo nel paese delle sceneggiate plateali ben sappiamo distinguere lo stile dallo sbraco.

Cercate di vedere La vita di Adele. Prendetevi tutto il tempo necessario. Immergetevi. Aprite il cuore. Pensate che là fuori ci sono persone vere che vivono così i loro sentimenti. Che, intelligenti o meno, colte o meno, pronte a cogliere le occasioni, fedeli, amorevoli, talentuose, ordinarie o meno che siano... ci sono.
Google
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...