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domenica 9 febbraio 2014

REwind - PASSION - De Palma, natural born thriller (al femminile)

Rachel McAdams e Noomi Rapace si baciano, si sfidano, si odiano, si amano, forse si ammazzano, e poi, forse ma dico forse, vivono due volte. Morboso? Barocco? Hitchcockiano? E chi altri se non Brian De Palma poteva realizzare questa pellicola, figlia diretta dei suoi capolavori del passato?
Su Wikipedia dicono del budget 30 milioni di dollari, ma chi ci crede? Girato in digitale in meno di due mesi, co-produzione con soldi francesi, tedeschi e spagnoli, girato a Berlino, dubito che si arrivi anche solo a meno della metà, anche per ciò che si vede sullo schermo. Il product placement (Apple, anyone?) è talmente esibito da essere una strizzata d'occhio: il Maestro non è più gradito in quel di Hollywood, e si arrabatta come può vendendo il suo nome per girare come vuole e rimanere se stesso. Non che sia un male, in questo senso. La recitazione elementare quando non imbarazzante del cast svela tutta la natura dell'operazione: quello di De Palma è il classico thriller che passa sopra alla forma, più interessato alla sostanza e all' “eleganza del gesto”, per così dire. La fotografia da fiction televisiva poi non aiuta, anche se la prima parte, marcatamente anonima quando non addirittura sciatta, viene riscattata da una seconda dove il regista si sbizzarrisce a creare un'atmosfera malsana con inquadrature sghembe, ombre espressioniste e pare del suo repertorio visivo. Lo spartiacque è la sequenza in split-screen (e cosa se no?) dell'omicidio, che da lì in poi darà il via ad un meccanismo di doppi e tripli salti mortali. Ovviamente esagerati, ovviamente non credibili, ovviamente... De Palma. A cui interessa solo creare l'atmosfera morbosa e dare allo spettatore quei sottili messaggi che piacciono a cinefili e psichiatri. E qui ce ne sono.
Il che può essere un bene come un male. Perchè se questo è un De Palma al cento per cento, è anche un De Palma che rifà il suo cinema, che ricalca quanto detto in passato e lo eleva all'ennesima potenza, che fa sfoggio di tecnica narrativa e di grammatica filmica, depistaggi, doppie e triple letture degli elementi. Sicchè, può risultare tanto genuino ed esaltante quanto stucchevole e vecchio.
Per gli amanti del cinema come tecnica espressiva, Passion è come una visita al museo: De Palma c'è tutto, è ancora vivo, è sempre se stesso. Che poi sia fuori dal tempo può essere, ovviamente, preso sia con amore che con una scrollata di spalle.

martedì 4 febbraio 2014

The Conspiracy - Come ti terrorizzo il cospirazionista

Come si affronta un film che si spaccia per documentario “serio” ma è una chiara fiction in stile mockumentary con elementi di found footage? Semplice, si smette di fare tanta teoria e si guarda se il prodotto regge. The Conspiracy cavalca una delle tante ossessioni, una delle più radicate del nostro contemporaneo: il complotto su scala mondiale
Inizia come un vero e proprio “documentario” sulla paranoia che deriva dalle disparate teorie internazionali; poi ne isola una in particolare e, facendo tornare protagonista la componente fiction sempre filtrata attraverso videocamere più o meno amatoriali, la porta alle estreme conseguenze.
Il Tarsus Club, fantomatico ordine devoto al culto di Mitra di cui fanno parte i potenti del mondo e/o coloro che li manovrano nell’ombra, è quanto di più credibile possa essere raccontato sullo schermo. La durata contenuta toglie probabilmente molto alla portata drammatica, ma il film ne guadagna in scorrevolezza ed evita di girare a vuoto, che in questi casi è il rischio maggiore. Una prima parte concepita come un simil-Zeitgeist (impossibile non vederne i richiami) moderato dallo stile alla Michael Moore, vede i due protagonisti prendere a cuore la battaglia contro i mulini a vento (anzi, i grattacieli a petrolio) di Terrance, il classico attivista con megafono e tonnellate di ritagli di giornale.
Poi, uno dei due si fa coinvolgere dalla misteriosa scomparsa dell’uomo e decide di seguirne le orme, seguendo una pista che porterà i due registi ad avere fin troppo successo… Probabilmente The Conspiracy, ma ha il merito di costruire un discorso che, sebbene possa apparire campato in aria ai più, ha le radici ben piantate nelle reali società più o meno segrete di ricchi e potenti, nei riti pagani più o meno noti ed accettati, ma soprattutto nella nostra paura (che si sublima in ignoranza consapevole) di qualcosa che effettivamente può esistere e condizionare le sorti di gran parte del mondo. E se esiste, meglio chiudere occhi e orecchie e vivere tranquilli.
non pecca di originalità,

Curiose le somiglianze con Kill List, film che aveva però dalla sua l’effetto-sorpresa per una parte conclusiva totalmente inaspettata. Qui forse le cose procedono abbastanza “telefonate”, ma la realizzazione, la sensazione tangibile di minaccia invisibile e inevitabile, e soprattutto il finale con sberleffo colpiscono nel segno. E quando la visione è terminata, rimane quel vago senso di inquietudine che non riesci ad esorcizzare con una scrollata di spalle.
Da noi è passato al Torino Film Festival. Produzione canadese per la regia di Cristopher MacBride (anche sceneggiatore)

giovedì 7 novembre 2013

La vita di Adele - Dire (poco), fare (abbastanza), baciare (moltissimo)

C'è un cinema che si avvicina moltissimo alla vita reale, la contempla e la rende addirittura più viva e pulsante della realtà stessa sbattendoci in faccia l'eccezionalità delle cose quotidiane, che spesso vediamo con occhi superficiali, svogliati, disinteressati e poco curiosi. Specie se si tratta della vita degli altri.

Quello che Abtellatif Kechiche compie con La vita di Adele (La Vie d'Adèle, ma anche Blue is the warmest color) è un miracolo in bilico tra l'arte naturalistica e il cinema nella sua accezione più nobile. Utilizza infatti il mezzo della settima arte per raccontare la vita.
E che vita: credetemi, ho visto più vita nei personaggi di Adele che in certe persone reali.

E' curioso che Adele sia, nei fatti, un cinecomic: è tratto (molto liberamente) dalla graphic novel francese Il blu è un colore caldo di Julie Maroh, che il regista sceglie non a caso di tradire fin dal titolo. Il racconto di Kechiche non è infatti un romanzo di formazione incentrato sulle tematiche omosessuali, la discriminazione, la lotta e l'accettazione di sé: è, come limpidamente il titolo squaderna, la vita di una ragazza di nome Adele – dove a “vita” si sovrappone “amore”, in ogni sua sfumatura, ovvero l'unica cosa che valga di essere raccontata.

Vediamo la nascita delle sue pulsioni, l'oggetto del desiderio, il corteggiamento, il raggiungimento, la routine, il dramma, la fine: momenti sempre dipinti con una cura maniacale nel giocare in leggerezza e sottrazione nei dialoghi, ma di mostrare fino all'esasperazione i singoli momenti capitali di questa storia, di questa vita, senza timore alcuno con le immagini, con picchi di lirismo da spezzare il cuore. E in tutto questo, non c'è l'ombra di maniera o formalismo.

Una direzione d'attori incredibile, con una Adèle Exarchopoulos semplicemente indescrivibile: i primi piani insistenti, onnipresenti seppure mai soffocanti, catturano ogni sua minima espressione che mai, e dico mai, appare artefatta o frutto di recitazione impostata. Se sia un dono o un caso, o semplicemente un incontro del destino tra pellicola, autore e interprete, questo rimarrà un bel mistero, e va bene così. Anche Lea Seydoux offre una grande prova, ma di fronte – vedere per credere – all'immensa rappresentazione che Adele fa di Adele (!) ogni altro aspetto passa in secondo piano.

Insomma, un'opera-esperienza da vivere e assorbire ad ogni costo. Anche se non tutto torna, com'è giusto, com'è probabilmente pianificato. I genitori di Adele che spariscono dalla scena, la mancata problematizzazione dell'omosessualità (risolta in un litigio a scuola? Solo questo? Magari fosse sempre così), le scene madri che – giusto un paio – alle volte rischiano di sembrare troppo “madri”... un clima un po' borghese e pulito per un contesto che avrebbe potuto essere dipinto in altro modo, rendendo anche il mondo che sta intorno ad Adele ed Emma vivo e pulsante quanto la loro relazione, che però, è essenzialmente quello che interessa a Kechiche. Le emozioni come il sesso, esplicati e rappresentati nei dettagli ma non aridamente spettacolarizzati. L'amore, probabilmente. Il tradimento, visto come intrinseco e ineluttabile in una storia iniziata con il desiderio ardente e qualcosa che manca all'interno (non per nulla si inizia sui banchi di scuola con una spiegazione sul “colpo di fulmine”). Con Adele che non sa perchè lo ha fatto, con Emma che ipocritamente nega ma che sapeva benissimo di essere prossima a farlo a sua volta. Così inizia e così finisce, come ci aspettiamo, quasi. Ma con un universo, prima, in mezzo e dopo.

Altra nota di rilievo: si vede a malapena il cellulare, nessun flirt via sms, nessuna email, niente foto da taggare, niente status su Facebook per ingelosire. Siamo nel 2013 (si balla pure su Likke Li) ma, necessariamente, si deve rimanere fuori da tempo. Una scelta di campo del regista francese che parla chiaro. Nei sentimenti, come negli horror e nei gialli, la tecnologia è sempre la nemica

E se nella vita reale si piange tanto per amore, figuratevi quanto si piange qua. Praticamente, se qualcuno avesse voglia fare il conto dello screen time delle lacrime sul volto di Adele, la mia sensazione è che potrebbe essere una buona metà di pellicola. E credo che alla fine le lacrime potrebbero persino guadagnarsi il nome sulla locandina. Ma anche qui, nessuna esagerazione, e noi che viviamo nel paese delle sceneggiate plateali ben sappiamo distinguere lo stile dallo sbraco.

Cercate di vedere La vita di Adele. Prendetevi tutto il tempo necessario. Immergetevi. Aprite il cuore. Pensate che là fuori ci sono persone vere che vivono così i loro sentimenti. Che, intelligenti o meno, colte o meno, pronte a cogliere le occasioni, fedeli, amorevoli, talentuose, ordinarie o meno che siano... ci sono.

lunedì 4 novembre 2013

Dai Comics alle foto, dai social al mercato che punta (troppo) ai minori

Cosplay in via d'estinzione (Dragonball è vecchiotto...)
Le foto ormai si fanno con i telefonini. Anche Lucca Comics 2013 ha dato indicazioni significative: ho visto scattare molte più foto con smartphone e telefoni anche meno smart che con macchine fotografiche vere e proprie. Non parliamo poi delle 'compatte', che sembrano in via d'estinzione. Il dato che mi porta a buttar giù queste righe è l'impressionante quantità di bambini che ho visto con il proprio cellulare o tablet alla mano fare istantanee ai tizi vestiti come i propri beniamini della tv e dei fumetti. Erano tanti, davvero tanti - e credo le postassero direttamente sul web. 
 
Credetegli. E' il Dottore.
Non deve stupire se la nuova frontiera per i social network è quella del pubblico e degli utenti underage: i minori – certo non meno competenti dei “maggiori” nell'utilizzo della tecnologia – sono il target che (abbastanza chiaramente) rappresenta una manna dal cielo per le indagini di mercato, l'indicazione di nuove tendenze, la vendita di prodotti a cui i genitori non possono dire no, ma anche per l'imposizione di modelli e di prodotti di consumo e tutte quelle cose che poi se inizio a elencarle divento noioso.

E' di pochi giorni la notizia che Facebook ha aperto tutte le funzioni di condivisione di contenuti – e di rimando accesso ai dati – degli iscritti al di sotto dei 18 anni, che rappresentano una fetta importantissima di utilizzatori totali. Guarda caso, dopo che le operazioni economiche del social si sono fatte più serie, e che ognuno di noi, con le sue informazioni personali accessibili, rappresenta un guadagno medio di oltre un dollaro e mezzo per la società di Zuckerberg. Nota a margine: contro le sue stesse regole, FB conta quasi 8 milioni di utenti al di sotto dei 13 anni, di cui 5 milioni sotto i 10 anni... Twitter aveva già impostato la rotta, con un utilizzo più libero fin dal principio, ma con la foglia di fico varata oltre un anno fa dei “contenuti per adulti” filtrati e inaccessibili dagli innocenti. Certo, con un sistema di catalogazione di partenza fumoso e... oh, insomma, a queste muraglie non crede nessuno. Come se aggirare questo tipo di protezioni, in internet, non fosse facile come parlar male di Justin Bieber. E poi, cosa cataloghiamo come contenuto per adulti se persino la musica, prodotto universale il cui target si abbassa sempre più e accessibile a chiunque, ha dei video (linkati, postati, visualizzati a milioni) che farebbero rabbrividire la nostra Samatha Fox dei tempi d'oro... e senza alcun filtro? 
 
L'innocenza (anni '80)
Vabbè, torno a bomba al punto. I bambini non sono stupidi, capiscono quello che vedono e quello che utilizzano. Però, come noi, più di noi, hanno bisogno di capire come farlo senza mettersi a rischio. E qui, noia della noia, entra in campo l'educazione. La stessa educazione che manca persino e pericolosamente soprattutto a noi grandicelli: leggere, informarsi, approfondire, capire, prima di spuntare quel dannato "ACCETTO" e installare/accedere/cedere.

L'innocenza, adesso.
Quando a Lucca ho visto un piccolo Orko contemplare innocente le grazie generosamente in esposizione di una procace cosplayer, ho riflettuto: quel piccolo, cresciuto con i dvd di He-Man del babbo (non ho voluto credere che sia stato fatto vestire a calcagnate come un personaggio che non passa in tv da vent'anni) non vedeva esattamente le stesse cose che vediamo noi. Per lui quella ragazza è il personaggio che interpreta, più o meno ben calato nella realtà, per un giorno o qualche istante solo.
Poi, beh, non nascondiamoci dietro un dito: scoprirà sicuramente prima di quanto abbiamo fatto noi quanto siano belle e utili quelle grazie. Ma ormai questo è un processo irreversibile e non starò qua a fare il bacchettone, perchè non ha senso. 

Orko!
I problemi, come al solito, non sono quelli immediatamente additabili (i bambini troppo svegli, la gente che va a giro con le cosce in bella vista, i social stronzi e approfittatori, i video volgarotti di Rihanna): tutto sta nel come noi inquadriamo la questione e permettiamo l'accesso/la percezione/la comprensione di quello che i piccoli hanno intorno. Nessuna repressione o ramanzina o nocchino sulla testa sostituirà una buona educazione di base. E se mentre lo scrivo mi sembra l'acqua calda... vorrei piovesse acqua calda ogni tanto.
Educazione anche per l'utilizzo di un telefonino, di un social o di un'app, innanzitutto. E allora non stiamo a scandalizzarci in modo ipocrita per lo sfruttamento intellettuale ed emotivo dei minori, cerchiamo piuttosto in prima persona di dare qualche indicazione decente a quelli che devono crescere non solo fisicamente, magari proteggendoli dal bombardamento di merda (sotto forma di spot, offerte, giochi, chat, policy e via discorrendo). 
 
Che poi spesso non ci sia più la voglia e la capacità di dare un'educazione come si deve da parte delle 'nuove leve' genitoriali che tanto criticano i propri vecchi, beh, questo è un altro (e forse troppo ampio) discorso...
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