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lunedì 18 novembre 2013

I broccoletti, il circolino letterario dell'amore di Volo e il saggio TZN

Temevo sarebbe successo. Dopo il mio annuncio di evitare come la peste il Corriere della Sera di domenica e del suo inserto La Lettura, che ospita l'intervento di Fabio Volo, questa mattina mi sono ritrovato sotto casa dei broccoletti viventi che mi hanno rapito e portato in un appartamento piccoloborghese, con una signora che cucina da non so più quante ore.
Mi hanno legato e costretto a leggere ad alta voce l'articolo culturale di Volo.
Titolo (non scherzo): “I miei libri, come broccoletti nell'anima”.
Come vedete, dopo la narrativa adesso dovrà tremare il mondo della poesia.
Inutile il mio protestare, urlare e serrare gli occhi: l'alternativa era leggere quello o dover ascoltare senza tregua in cuffia l'opera omnia di Gigi D'Alessio
 
Faccio un breve riassunto per chi ha voluto conservare i nervi a posto, partendo dal dato fondamentale: nell'articolo non c'è la minima ombra di un argomento o un ragionamento culturale.
Se mai, il tutto si riduce ad un lunghissimo peana sulla sua “molla interiore”, un temino pseudo-sociale su come i tempi stiano cambiando e il “pubblico” anche. Lui la vede come una cosa positiva – per forza, ci fa palate di soldi sopra – io l'avverto come sirena d'allarme, peraltro vecchia: tanti di quelli che leggono i suoi libri non sono lettori abituali ma occasionali o d'occasione. Poi Volo dà il massimo: parla di come non abbia un fanclub ma latori del suo successo siano milioni di persone qualunque (ovviamente le persone migliori: quelle che fanno l'Italia, che sono l'Italia, forza Italia! Famigliuole, laureati, diplomati, quelli con la terza media come lui, preti e suore). Arriva persino, sfiorando il sublime, ad accusare la nostra letteratura di utilizzare personaggi banali e poco sfumati (ora, non che si brilli in questo senso, ma almeno qualche scrittore un po' di ambiguità la utilizza: ma Volo legge? Cosa e chi legge?). Poi si capisce il perchè: mica prende in mano dei libri, lui, guarda la tv. I libri vanno scritti, spiega, come Breaking Bad, come Mad Men... come le serie americane insomma.
Vorrebbe fare questo, in futuro. Sospiro di sollievo da parte mia. Volesse il cielo, come se in America non ci fossero migliaia di scrittori dal talento cristallino che contro le ostiche strutture della narrazione seriale non si sono rotti le ossa. Un tipo di format che richiede non solo capacità inventiva ma anche rispetto, dedizione, mestiere, sagacia, tecnica: buona fortuna.
E poi, ecco il vero punto a cui tiene: in Italia – sorpresona – c'è troppa gente che critica perchè è avvelenata dall'odio. Dopo il partito dell'amore (che vince sempre sull'odio, ricordatevelo, stronzi fottuti che non siete altro) ci sarà il circolino letterario dell'amore. Viva l'amore.

A quel punto (che purtroppo era alla fine) non c'è l'ho più fatta. Ho strappato le catene, ho divorato i broccoletti, ho lanciato la signora dentro al forno e poi sono andato a vomitare.
Tutti uguali. Come al solito il ragionamento finale arriva lì. Senza cattiveria, per carità, ma ci vogliono tutti uguali. Quelli come Volo vorrebbero che guardassimo Zalone e La vita di Adele con gli stessi occhi, lo stesso spirito e la stessa assenza di capacità critica, così da dire: “Oh, che bel film” verso entrambi. “Sì, a modo suo è interessante”, per le opere di Kechiche e per Sole a catinelle. Per carità, mai dire che qualcosa è una merda, che magari manca di originalità, inventiva, basi tecniche, o che magari è un'inutile brodaglia riscaldata di melenso autobiografismo d'accatto con aforismi da due soldi. No, saremmo dei cattivoni avvelenati d'odio che, probabilmente, hanno aspirazioni frustrate.
Altro grande cavallo di battaglia di chi ha una qualunque forma di successo per tagliare le gambe a chi legittimamente vuol dire la sua. 

A Volo e quelli come lui: auguratevi davvero che il vostro pubblico non entri mai in contatto con la vera letteratura, come ipocritamente augurate.
Dovreste, invece, farvela sotto di fronte a questa prospettiva. Se uno legge Calvino non può sperare poi di leggere Fabio Volo con gli stessi occhi, fare come se niente fosse. Che si mettano l'anima in pace, lui e i suoi broccoletti: una volta che qualcuno entra in contatto con qualcosa di puro, di bello e di vero, la stronzata non è più digeribile. Dopo aver letto, visto o ascoltato un'opera davvero grande, sconvolgente, interessante, dal valore alto e istruttivo... una stupidaggine innocua e leggera, anche se sincera avrà la considerazione e la critica che si merita.

Per quanto riguarda l'altro tormentone-tormento del giorno, ovvero Masterpiece, mi tocca tacere. Il fatto è che semplicemente non mi interessa. La trovo un'idea malsana fin dalla sua nascita, basata su un presupposto sbagliato e fuori da ogni logica, ovvero abbassare la scrittura a materia di reality-talent e relative dinamiche, alle quali l'esercizio della letteratura non si può declinare. La mia soluzione è soltanto una, togliere quello che serve alla tv: lo spettatore. Non lo vedo e non lo vedrò (nota per altri aspiranti broccoletti: spero non mi tocchi una cura Ludovico per questo).

Così come non darò mai soldi a case editrici, riviste e quotidiani che ospitano interventi dell'autore dei broccoletti nell'anima, e di levatura simile.
Citazione da tenere a mente per tutti: “E voglio indifferenza se mai mi vorrai ferire”.
Iniziamo, almeno noi, a ignorare questi fenomeni.
E ora provate a darmi dello snob, bitches.

sabato 16 novembre 2013

Il peggio della settimana (deve ancora venire): Fabio Volo, la cultura e Blurred Lines

Domani non comprerò il Corriere della Sera. Ma non c'è niente di strano, non è che io lo compri così spesso. Ecco, magari la domenica sì, e domani avrei anche potuto comprarlo. Lo sapete che sull'inserto La Lettura (bello eh, ma a volte un po' pesantuccio ed elitario) ci sarà un articolo di Fabio Volo, vero? Ecco.
Quindi faccio l'unica cosa sensata a fronte di un miliardo di discorsi, tweet, post, status e sticazzi vari che hanno scatenato l'inferno negli ultimi giorni. Esercito il mio potere di umile consumatore nei confronti di un prodotto.
E non voglio che si ripeta la tiritera che se uno non apprezza Fabio Volo è snob, invidioso, misantropo, fuori dalla realtà, cattivo, sordocieco, etc etc... Sono curioso di vedere cosa sarà pubblicato domani e sarò persino felice di leggerlo, ma non pagherò per poterlo fare. Poi, forse, neppure mi unirò alle “mille voci al sonito” di manzoniana memoria.
Certo, è curioso. Insomma, sullo spazio culturale del Corriere hanno scritto persone del calibro di Pasolini, D'Annunzio, Sciascia, Maraini, giusto per dirne quattro. La Lettura ha garbatamente assegnato un sei e mezzo in pagella all'ultimo libro di Volo (come allo studente duro di comprendonio ma che si applica, con incentivo a fare di meglio) in modo da mettere le mani avanti, andando a scomodare e impallinare in modo inclemente la prosa di Mazzantini, De Luca e Carofiglio facendola apparire come arzigogolata e farraginosa, giusto per esaltare la scrittura da uomo della strada del nuovo acquisto
Frase cult: “Preferirei Fabio Volo”.
Ecco, io no.
Io il Corriere della Sera, per questo, non lo compro. Punto.
Il successo e il valore non sono la stessa cosa. Il successo non perdona, il successo non ti fa perdonare e spesso è imperdonabile che vada a colpire persino il pubblico, o almeno la sua parte “orgogliosa di essere cultura” che sa riconoscere la statura di un'opera e di un autore. Certo, stiamo parlando in questo caso di un successo di pancia e non di cervello (direi che su questo pochi possano dissentire), ma sempre lì si va a finire: si scambia il successo per il valore assoluto del prodotto. Un libro, una storia, un racconto, non devono per forza parlare a centinaia di migliaia di persone per essere degni di nota. Se il marketing sopperisce al riconoscimento del valore, il gioco è abbastanza scoperto e facile da smascherare per chiunque abbia un po' di cervello.

Aggiungo però un'altra cosa, come esempio lampante della 'condanna' per via del successo commerciale, dove non dobbiamo andare a finire “noi della cultura”. Fa notizia (adesso!) il boicottaggio (adesso!) da parte di un bel gruppetto di gruppi organizzati di studenti universitari inglesi della canzone Blurred Lines (eddaje) di Robin Thicke. Dopo 8 mesi dal lancio del singolo e un successo planetario di dimensioni – e dollaroni – enormi. Dopo che da marzo 2013 studenti e studentesse di ogni lingua, estrazione sociale e convinzione politico/etico/sociale se la sono ballata e canticchiata ovunque, nel 99% per cento dei casi fregandosene del testo (che, detto tra noi, è una stronzata giocosa da morti di figa ed è sempre meglio delle liriche patetiche di Vasco Rossi che sembra sempre cercare di rimorchiare un'adolescente). Ha senso? Il testo è davvero così misogino? Il video talmente offensivo da generare anche cloni ulteriormente, involontariamente offensivi per la causa che difendono? E allora a quasi tutti i rapper americani e nostrani che cosa dovremmo fare, la castrazione chimica per oltraggio reiterato e compiaciuto all'intero genere femminile da quando esiste il genere?
Il successo non perdona, ma almeno di Robin Thicke non dicono che è il nuovo Stewie Wonder...

mercoledì 13 novembre 2013

Lily Allen, o dell'acqua calda ipocrita: teniamoci Miley.

Lily Allen! Lei sì che sa dire le parolacce
Eccola tornare sulla scena musicale, dopo quattro anni, con... udite udite... una canzone-video di critica a Burred Lines di Thicke e del mileycyrusismo dilagante.
Vabbè, contenta lei: eccovi Hard Out There.

Se il suo grande ritorno sulle scene dopo quattro anni è la parodia di un fenomeno degli ultimi sei mesi, complimenti per l'impegno.
Quando sento puzza di fuffa, specialmente rilanciata dai media in modo tipo “Il grande ritorno di XYZ con video provocatorio in riposta al maschilismo/femminismo/volgarità/etc” in questi la prima cosa che faccio è andare a guardare il video senza ascoltare l'audio.
Mmmh, cosa abbiamo?
Una cantante conciata e truccata in modo da fare la figa, modelle che sculettano e spatatano senza ritegno, sembianti fallici, macchinone... praticamente un video di Jay Z o del peggior rapper tamarro della scena musicale. Ma – attenzione – Lily fin dal prologo del video dà la colpa ad un produttore senza scrupoli che la bacchetta mentre sul tavolo operatorio si fa togliere il grasso dalle chiappe.
Però poi nella trasposizione in immagini del suo singolo - SUO, non del producer fittizio - tanto voluto e sentito per protestare contro il maschilismo dilagante, non c'è mai un momento di reazione vera allo stereotipo. Direi piuttosto che soccombe e va a contraddire il testo.
Sono dell'idea che chi sciommiotta, anche per protesta, abbia già perso in partenza, a meno di colpi di genio davvero particolari, e non è questo il caso. Alla fine abbiamo un video che è un costoso abbassamento al livello dei soggetti bersagliati, di una canzone con un testo anche carino, ma innocuo, affogato dalla solita ridda di over-produzione, voce sintetizzata, ritornello wannabe-catchy (ma sarà davvero memorabile? Boh). Niente a che vedere, nemmeno nello stile, con Lorde, lei sì capace di veicolare un bel testo contro le banalità in una canzone che prende e che ha un video ad hoc.
Alla fine della fiera ti fa rimpiangere la truzzaggine volgare ma sempliciotta di Miley Cyrus, che certo non è originale, ma almento è autentica nella sua tristezza. Oltretutto, dopo l'ultima prodezza della canna sul palco degli EMA di Mtv, l'ex Hanna Montana si è dimostrata anche meglio del previsto quanto a strategie.
La verità è brutta e triste: Lily Allen è ormai vecchia per gli standard del mercato musicale mainstream e non ha sfondato abbastanza da essere una star di quelle che contano.
E' dura là fuori per una stronza? Figurati per una persona onesta...
Lily Allen, o dell'acqua calda ipocrita: teniamoci Miley.

giovedì 7 novembre 2013

La vita di Adele - Dire (poco), fare (abbastanza), baciare (moltissimo)

C'è un cinema che si avvicina moltissimo alla vita reale, la contempla e la rende addirittura più viva e pulsante della realtà stessa sbattendoci in faccia l'eccezionalità delle cose quotidiane, che spesso vediamo con occhi superficiali, svogliati, disinteressati e poco curiosi. Specie se si tratta della vita degli altri.

Quello che Abtellatif Kechiche compie con La vita di Adele (La Vie d'Adèle, ma anche Blue is the warmest color) è un miracolo in bilico tra l'arte naturalistica e il cinema nella sua accezione più nobile. Utilizza infatti il mezzo della settima arte per raccontare la vita.
E che vita: credetemi, ho visto più vita nei personaggi di Adele che in certe persone reali.

E' curioso che Adele sia, nei fatti, un cinecomic: è tratto (molto liberamente) dalla graphic novel francese Il blu è un colore caldo di Julie Maroh, che il regista sceglie non a caso di tradire fin dal titolo. Il racconto di Kechiche non è infatti un romanzo di formazione incentrato sulle tematiche omosessuali, la discriminazione, la lotta e l'accettazione di sé: è, come limpidamente il titolo squaderna, la vita di una ragazza di nome Adele – dove a “vita” si sovrappone “amore”, in ogni sua sfumatura, ovvero l'unica cosa che valga di essere raccontata.

Vediamo la nascita delle sue pulsioni, l'oggetto del desiderio, il corteggiamento, il raggiungimento, la routine, il dramma, la fine: momenti sempre dipinti con una cura maniacale nel giocare in leggerezza e sottrazione nei dialoghi, ma di mostrare fino all'esasperazione i singoli momenti capitali di questa storia, di questa vita, senza timore alcuno con le immagini, con picchi di lirismo da spezzare il cuore. E in tutto questo, non c'è l'ombra di maniera o formalismo.

Una direzione d'attori incredibile, con una Adèle Exarchopoulos semplicemente indescrivibile: i primi piani insistenti, onnipresenti seppure mai soffocanti, catturano ogni sua minima espressione che mai, e dico mai, appare artefatta o frutto di recitazione impostata. Se sia un dono o un caso, o semplicemente un incontro del destino tra pellicola, autore e interprete, questo rimarrà un bel mistero, e va bene così. Anche Lea Seydoux offre una grande prova, ma di fronte – vedere per credere – all'immensa rappresentazione che Adele fa di Adele (!) ogni altro aspetto passa in secondo piano.

Insomma, un'opera-esperienza da vivere e assorbire ad ogni costo. Anche se non tutto torna, com'è giusto, com'è probabilmente pianificato. I genitori di Adele che spariscono dalla scena, la mancata problematizzazione dell'omosessualità (risolta in un litigio a scuola? Solo questo? Magari fosse sempre così), le scene madri che – giusto un paio – alle volte rischiano di sembrare troppo “madri”... un clima un po' borghese e pulito per un contesto che avrebbe potuto essere dipinto in altro modo, rendendo anche il mondo che sta intorno ad Adele ed Emma vivo e pulsante quanto la loro relazione, che però, è essenzialmente quello che interessa a Kechiche. Le emozioni come il sesso, esplicati e rappresentati nei dettagli ma non aridamente spettacolarizzati. L'amore, probabilmente. Il tradimento, visto come intrinseco e ineluttabile in una storia iniziata con il desiderio ardente e qualcosa che manca all'interno (non per nulla si inizia sui banchi di scuola con una spiegazione sul “colpo di fulmine”). Con Adele che non sa perchè lo ha fatto, con Emma che ipocritamente nega ma che sapeva benissimo di essere prossima a farlo a sua volta. Così inizia e così finisce, come ci aspettiamo, quasi. Ma con un universo, prima, in mezzo e dopo.

Altra nota di rilievo: si vede a malapena il cellulare, nessun flirt via sms, nessuna email, niente foto da taggare, niente status su Facebook per ingelosire. Siamo nel 2013 (si balla pure su Likke Li) ma, necessariamente, si deve rimanere fuori da tempo. Una scelta di campo del regista francese che parla chiaro. Nei sentimenti, come negli horror e nei gialli, la tecnologia è sempre la nemica

E se nella vita reale si piange tanto per amore, figuratevi quanto si piange qua. Praticamente, se qualcuno avesse voglia fare il conto dello screen time delle lacrime sul volto di Adele, la mia sensazione è che potrebbe essere una buona metà di pellicola. E credo che alla fine le lacrime potrebbero persino guadagnarsi il nome sulla locandina. Ma anche qui, nessuna esagerazione, e noi che viviamo nel paese delle sceneggiate plateali ben sappiamo distinguere lo stile dallo sbraco.

Cercate di vedere La vita di Adele. Prendetevi tutto il tempo necessario. Immergetevi. Aprite il cuore. Pensate che là fuori ci sono persone vere che vivono così i loro sentimenti. Che, intelligenti o meno, colte o meno, pronte a cogliere le occasioni, fedeli, amorevoli, talentuose, ordinarie o meno che siano... ci sono.

martedì 5 novembre 2013

V per Vendetta o A per Armistizio? Il volto di Guy, di V e del 5 novembre

Un bel faccino. Teneramente imbarazzato.
Remember, remember, the fifth of november...
Sì, un attimo. Cosa ricordiamo davvero? V per Vendetta e il suo protagonista, con i suoi attentati ad un regime orwelliano, o la vera origine della filastrocca, un fallito attentato dinamitardo di inizio 1600 che avrebbe distrutto il parlamento inglese, ucciso il Re ma anche altre migliaia di persone nel raggio di un chilometro?
E per quel motivo dovremmo farlo, scusate? 
 
Guy Fawkes mentre pensa. A cosa, non si sa.
A me non va di ricordare la congiura delle polveri (leggetevela su Wikipedia), più volte cavalcata pretestuosamente in America dalla politica. Mi piace V per Vendetta, è una bella opera (il fumetto, il film meno), mi piace anche come il messaggio si è trasformato, anche se non in tutte le sue sfumature. Sì al pacifismo, no ad azioni criminali. Anonymous e tutti quelli che stanno dietro la maschera di Guy Fawkes, vero colpo di genio degli ultimi vent'anni (la maschera, non Guy Fawkes), non fanno che dimostrare che i simboli sono più potenti di ogni altra cosa. Milioni di persone sanno che quella faccia beffarda significa “anarchia, protesta, anti-establishment, anti-capitalismo” eccetera, ma pochissimi conoscono davvero i messaggi che gli attivisti vogliono veicolare, quando ci sono.
Che io ricordi o che abbia trovato traccia in giro, il primo ad utilizzare l'iconica V e la maschera di Guy Fawkes a fini di protesta politica è stato – udite udite – Beppe Grillo. Uno che di mestiere fa(ceva?) il comico e che ne sa più di marketing virale ed emotivo che di buona educazione.
Yeaaaah! Vaffanculooooooo! FACDESISTEM!
Tra l'altro, per il primo, dichiarato e bellicoso intento di “far saltare il Parlamento” con il Vaffanculo-day e la nota campagna (sacrosanta negli assunti, per carità) Parlamento pulito, il buon Beppe aveva scelto nel 2007 come data simbolica l'8 settembre... ovvero quando, nel 1943, il generale Pietro Badoglio, a capo del governo italiano, proclamò l'armistizio (insomma... gli Alleati lo imposero a suon di bombe, ma vabbè) gettando nel caos la penisola e col re Vittorio Emanuele III che se la diede a gambe. Ma questa è storia, non ci serve! Servono simboli, immediati, riconoscibili, blockbusteriani, replicabili: il faccione di Badoglio, triste come un cocker, non era adatto. Ecco dunque l'americanissimo V, anarchico guerriero contro un regime totalitario. Cioè tutto l'opposto della maschera che indossa, simbolo di Guy Fawkes, ex soldato fervente cristiano che voleva ammazzare quanti più protestanti poteva, assieme al Re (d'Inghilterra, che era dei “loro”). Una congiura che non avrebbe portato lui e i suoi sodali a mettere sul trono Topolino. Era una faida, e tale sarebbe rimasta. 
 
E adesso sono cazzi.
Nel fumetto originale di Alan Moore, scritto nei primi anni '80, V vuole vendicarsi delle torture e dei torti subiti per motivi particolari; è idealista, sì, ma se ne fotte di essere un leader. E' carismatico, ha una visione, ma non la impone – e manca la “discesa in campo” del suo popolo mascherato. Questo succede nel film del 2005, possibile solo perchè creatura degli allora lanciatissimi Wachowski bros nonostante i due vomitevoli sequel di Matrix, e del loro regista-protegee James McTeigue. Un film ad alto budget con messaggio destabilizzante, terroristico,
Badoglio. Non esattamente un volto memorabile.
anarchico... una rarità, a meno che non si consideri, un po' come avvenne con il punk, lo sfruttamento di un sentimento allora emergente ai fini di marketing. Che poi la cosa abbia avuto una grandissima eco (ma ogni maschera venduta, se non tarocca, fa guadagnare la Warner), forse più di quanto immaginato, è certo.

Curioso il caso italiano. Pensate se non ci fosse stato il film americano di V per Vendetta. Avremmo dovuto ripiegare su qualcosa di nostrano sull'8 settembre: ma il meglio che avremmo potuto avere sarebbe stato un low-budget distribuito in tre sale, in costume, con comparse inette e cavalli spelacchiati, grondante di retorica e inamidato come un calzino, girato da Pasquale Squitieri. Probabilmente con la maschera unico elemento ben realizzato da, chessò, Sergio Stivaletti. A come Armistizio. Sfigatooooo....

Ecco. E allora Beppe te lo scordavi il successo. Gli americani stanno sempre troppo avanti. Anche... beh, nell'anarchia organizzata.
Buon 5 novembre...

lunedì 4 novembre 2013

Dai Comics alle foto, dai social al mercato che punta (troppo) ai minori

Cosplay in via d'estinzione (Dragonball è vecchiotto...)
Le foto ormai si fanno con i telefonini. Anche Lucca Comics 2013 ha dato indicazioni significative: ho visto scattare molte più foto con smartphone e telefoni anche meno smart che con macchine fotografiche vere e proprie. Non parliamo poi delle 'compatte', che sembrano in via d'estinzione. Il dato che mi porta a buttar giù queste righe è l'impressionante quantità di bambini che ho visto con il proprio cellulare o tablet alla mano fare istantanee ai tizi vestiti come i propri beniamini della tv e dei fumetti. Erano tanti, davvero tanti - e credo le postassero direttamente sul web. 
 
Credetegli. E' il Dottore.
Non deve stupire se la nuova frontiera per i social network è quella del pubblico e degli utenti underage: i minori – certo non meno competenti dei “maggiori” nell'utilizzo della tecnologia – sono il target che (abbastanza chiaramente) rappresenta una manna dal cielo per le indagini di mercato, l'indicazione di nuove tendenze, la vendita di prodotti a cui i genitori non possono dire no, ma anche per l'imposizione di modelli e di prodotti di consumo e tutte quelle cose che poi se inizio a elencarle divento noioso.

E' di pochi giorni la notizia che Facebook ha aperto tutte le funzioni di condivisione di contenuti – e di rimando accesso ai dati – degli iscritti al di sotto dei 18 anni, che rappresentano una fetta importantissima di utilizzatori totali. Guarda caso, dopo che le operazioni economiche del social si sono fatte più serie, e che ognuno di noi, con le sue informazioni personali accessibili, rappresenta un guadagno medio di oltre un dollaro e mezzo per la società di Zuckerberg. Nota a margine: contro le sue stesse regole, FB conta quasi 8 milioni di utenti al di sotto dei 13 anni, di cui 5 milioni sotto i 10 anni... Twitter aveva già impostato la rotta, con un utilizzo più libero fin dal principio, ma con la foglia di fico varata oltre un anno fa dei “contenuti per adulti” filtrati e inaccessibili dagli innocenti. Certo, con un sistema di catalogazione di partenza fumoso e... oh, insomma, a queste muraglie non crede nessuno. Come se aggirare questo tipo di protezioni, in internet, non fosse facile come parlar male di Justin Bieber. E poi, cosa cataloghiamo come contenuto per adulti se persino la musica, prodotto universale il cui target si abbassa sempre più e accessibile a chiunque, ha dei video (linkati, postati, visualizzati a milioni) che farebbero rabbrividire la nostra Samatha Fox dei tempi d'oro... e senza alcun filtro? 
 
L'innocenza (anni '80)
Vabbè, torno a bomba al punto. I bambini non sono stupidi, capiscono quello che vedono e quello che utilizzano. Però, come noi, più di noi, hanno bisogno di capire come farlo senza mettersi a rischio. E qui, noia della noia, entra in campo l'educazione. La stessa educazione che manca persino e pericolosamente soprattutto a noi grandicelli: leggere, informarsi, approfondire, capire, prima di spuntare quel dannato "ACCETTO" e installare/accedere/cedere.

L'innocenza, adesso.
Quando a Lucca ho visto un piccolo Orko contemplare innocente le grazie generosamente in esposizione di una procace cosplayer, ho riflettuto: quel piccolo, cresciuto con i dvd di He-Man del babbo (non ho voluto credere che sia stato fatto vestire a calcagnate come un personaggio che non passa in tv da vent'anni) non vedeva esattamente le stesse cose che vediamo noi. Per lui quella ragazza è il personaggio che interpreta, più o meno ben calato nella realtà, per un giorno o qualche istante solo.
Poi, beh, non nascondiamoci dietro un dito: scoprirà sicuramente prima di quanto abbiamo fatto noi quanto siano belle e utili quelle grazie. Ma ormai questo è un processo irreversibile e non starò qua a fare il bacchettone, perchè non ha senso. 

Orko!
I problemi, come al solito, non sono quelli immediatamente additabili (i bambini troppo svegli, la gente che va a giro con le cosce in bella vista, i social stronzi e approfittatori, i video volgarotti di Rihanna): tutto sta nel come noi inquadriamo la questione e permettiamo l'accesso/la percezione/la comprensione di quello che i piccoli hanno intorno. Nessuna repressione o ramanzina o nocchino sulla testa sostituirà una buona educazione di base. E se mentre lo scrivo mi sembra l'acqua calda... vorrei piovesse acqua calda ogni tanto.
Educazione anche per l'utilizzo di un telefonino, di un social o di un'app, innanzitutto. E allora non stiamo a scandalizzarci in modo ipocrita per lo sfruttamento intellettuale ed emotivo dei minori, cerchiamo piuttosto in prima persona di dare qualche indicazione decente a quelli che devono crescere non solo fisicamente, magari proteggendoli dal bombardamento di merda (sotto forma di spot, offerte, giochi, chat, policy e via discorrendo). 
 
Che poi spesso non ci sia più la voglia e la capacità di dare un'educazione come si deve da parte delle 'nuove leve' genitoriali che tanto criticano i propri vecchi, beh, questo è un altro (e forse troppo ampio) discorso...
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