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venerdì 31 gennaio 2014

LAST VEGAS - i vecchi fanno sempre ridere

"Non sembra, ma siamo DAVVERO vecchi. Per questo
andremo in giro con vestiti imbarazzanti fino alla fine"
Attenzione! Questo è un film sui VECCHI, che fanno ridere perchè sono VECCHI: ci sono un sacco di stereotipi sui VECCHI e sulle loro varie tipologie.
Poi, che questi settantenni interpretati da quattro Premi Oscar siano più arzilli, svegli e simpatici della media, è automatico.
C'è Michael Douglas (che chiameremo per convenienza Maicoldaglas) che ha una ragazza di trent'anni innamorata (?) del suo patrimon del suo fascino da scapolone settantenne.
Tanto per capirsi, Maicoldaglas è arrivato ai 70 senza mai sposarsi, ma poi al funerale del suo maestro di vita e di lavoro (che ne avrà avuti 100?), durante l'orazione funebre, forse pensa di essere VECCHIO e quindi chiede alla pupetta di sposarlo. Nessuno, in chiesa, protesta (mica tanto per la mancanza di rispetto per il morto, ma per la faccia tosta da VECCHIO).
Insomma dunque i lifting di Maicoldaglas chiedono alla bimba di sposarlo e lei: “Sì, facciamo più in fretta possibile, 'sto fine settimana a Las Vegas”.
Momento GILF
Traduz. = Questo è l'ennesimo film-spot su Las Vegas, Nevada.
Ma c'è la storiellina dei quattro amici che si ritrovano, il background di risentimento tra il viagra di Maicoldaglas e Bob De Niro (che – sorpresona! - interpreta il vecchio brontolone) per la donna amata e contesa quando erano ragazzi (schiattata di recente), e i due farfalloni Morgan Freeman e Kevin Kline, uno ballerino inespresso e l'altro triste e voglioso di NON tradire la moglie di cui è i-i-i-innamoratissimooo-ooh.
Insomma, il film è VECCHIO quanto i suoi personaggi VECCHI che vanno col pilota automatico, ma funziona perchè non è stupidissimo e ha i suoi tempi messi giù per benino, sebbene sia prevedibilissimo.
Poi le zampe di gallina di Maicoldaglas incontrano una VECCHIA cantante molto carismatica, di quelle che anche tu ti innamoreresti pure se avessi 30 anni meno di lei, e quasi se la contende di nuovo col rivale di sempre De Niro; ma niente, il fascino della dentiera di Maicoldaglas ha la meglio e scatta lo psicodramma.
Cosa accadrà? I capelli posticci di Maicoldaglas riusciranno a capire dov'è l'ammmmore? De Niro la smetterà di essere insopportabile e deprimente? Morgan Freeman ballerà? Kline si farà una ventenne oppure il nerboruto sosia di Madonna?
"Di chi è questa pastiglietta blu?"
E' un tipo di cinema VECCHIO che fa ridere perchè i VECCHI interpretano in overacting i VECCHI: per cui potete ridere garbatamente pensando ai vostri VECCHI (ma anche agli altrui) e poi pensare: “Eh però dai, mica male, 'sti VECCHI, che magari se li lasciamo andare liberi per le strade del mondo possono anche essere simpatici”. Poi prendete la macchina, ve ne trovate uno davanti con la Panda per tutto il tragitto e siamo punto e a capo.
Le battute migliori sono nelle conversazioni telefoniche dei protagonisti, che non appena sentono uno degli altri chiedono preoccupati se abbia un male incurabile e/o in fase terminale.
Categoria film: “Gradevole e garbato, praticamente innocuo”.

Considerazioni sparse: 
"Dite al mic: TRISTEZZA ASSOLUTAAAAAA"
1. De Niro proprio non ce la fa ad apparire in un film senza scimmiottare l'atteggiamento mafioso (qui un paio di battute, spalleggiato dagli altri). 
2. Fifty Sens (o come cacchio si scrive, insomma, il répper che gli hanno sparato 35 volte ma lui non ha capito) fa il cameo più inutile della storia e va bene così.
3. Momento tristezza assoluto: la sfilata delle ragazzine in piscina presentata da (altro cameo d'eccezione [forse]) quello di Party Rock che non ho voglia di controllare su Google come si chiama, e i quattro anziani che stanno in giuria votando tutte con un 10, che teneri (poi De Niro si ricorda di essere un rompiballe e dà un 7 a caso).

Icons: Nicholas Ray

Nicholas Ray

(Raymond Nicholas Kienzle - Galesville7 agosto 1911 – New York16 giugno 1979)

"Un regista o un uomo di teatro deve dare un profondo senso della realtà alle persone che pagano per andare a vedere il suo lavoro".























mercoledì 22 gennaio 2014

The Counselor - Il procuratore: discorsi a vuoto sotto il sole

Ridley Scott è quel regista che ti mette sempre nella posizione di dover ricordare il suo glorioso passato, i suoi capolavori e la sua competenza registica e formale. Poi però ti tocca scorrere la sua carriera degli ultimi 20 anni e trovi quasi sempre film che hanno cercato il 'botto' spettacolare, solidi sì, ben girati, anche, ma che difficilmente ti hanno scaldato il cuore o ci hanno lasciato un graffio.
The Counselor è invece un film che provoca disappunto. Insomma, in Ridley riponi sempre un bel po' di fiducia, quantomeno per il solido mestiere (persino dopo l'orribile Prometheus): poi c'è la sceneggiatura di Cormac McCarthy, uno che ci ha regalato i libri da cui sono tratte un paio delle migliori opere del decennio scorso come The Road e Non è un paese per vecchi. Uno scrittore Pulitzer che rientra tra i più grandi d'America. Il connubio, però non è stato garanzia di qualità.
Anzi: una prima mezz'ora di continui spiegoni, i classici dialoghi che fanno già capire cosa vedremo nel finale, lascia il posto a un susseguirsi di eventi poco interessanti e coinvolgenti, per un classico schema criminale della consegna di droga andata male perchè qualcuno trama nell'ombra. Ci sono poi ulteriori dialoghi troppo sopra le righe e vagamente bolsi, qualche battuta sapida (soprattutto in bocca a Brad Pitt), ma l'atmosfera che si respira non è mai quella di una tragedia umana, cosa alla quale evidentemente si punta, quanto di un thriller sgonfiato di pathos.
Un racconto morale-esistenziale risaputo che, probabilmente, sotto forma di romanzo avrebbe funzionato meglio, pur senza entusiasmare.
Le interpretazioni di maniera non emozionano né convincono fino in fondo, neppure per quello che, è evidente, si vorrebbe far eleggere allo spettatore a personaggio memorabile, ovvero la Malkina di Cameron Diaz. L'attrice ne esce tutto sommato bene, quasi meglio dei colleghi, oltre ad essere protagonista della scena più controversa e, per dirla come Javier Bardem, “più ginecologica che sexy”, pur se ovviamente controfigurata (e la regia fa i salti mortali per far... quadrare tutto). Fassbender senza infamia né lode, Penelope Cruz sprecata e poco incisiva, in un ruolo incolore che non le rende giustizia. Curiosa tripletta di camei televisivi, con Dean Norris, Natalie Dormer e Goran Visnjic… in due piccoli ruoli anche Bruno Ganz e John Leguizamo. Insomma, cast delle grandi occasioni persino nei piccoli minutaggi. Un'esibizionismo autocompiaciuto che, però, non sopperisce alle mancanze drammatiche e non crea nessuna sintonia con lo spettatore.
Film diseguale, verboso e non riuscito, per un genere (il crime-drama-esistenziale di frontiera) che probabilmente andrebbe svecchiato.
E non saranno quelli come Ridley Scott a farlo...

martedì 21 gennaio 2014

C'era una volta: The Wolf of Wall Street, 1929


The Wolf of Wall Street (1929) diretto da Rowland V. Lee, prima pellicola sonora della star George Bancroft, con l'indimenticabile Olga Baclanova di Freaks nel cast.

lunedì 20 gennaio 2014

The Wolf of Wall Street: se Caligola diventa un guru della motivazione

Ah, Scorsese, Scorsese. Invece di starsene buono, restaurare i vecchi film, fare i documentari sugli Stones, a 72 anni continua a voler fare pellicole fuori di testa, provocatorie, bigger than life.
Così come esagerata è stata la vita del protagonista di questo biopic, perchè di biopic sotto acido si tratta: Jordan Belfort, uno che da Wall Street è poi diventato il broker con meno scrupoli e più droga in corpo d'America. Ma anche con tanti, tanti soldi. Tanti da perdere la testa e ovviamente il controllo. Un folle, una lurida canaglia, un truffatore dal grande carisma, un esaltato, un uomo con una visione (rubare ai fessi per intascarsi i loro soldi), uno che ricompensava alla grande i suoi collaboratori, alle volte salvati letteralmente dal marciapiede. Un sogno americano in una bolla di sapone, durata sorprendentemente tanto, oltre cinque anni, prima che le forze dell'ordine potessero fare qualcosa. In mezzo, successe di tutto.
Nella sceneggiatura di Terence Winter (uno che ha scritto I Soprano e Boardwalk Empire, eh!) c'è ben poco di romanzato: tutte le cose che vediamo sullo schermo sono veramente accadute, e questo le rende ancora più folli, ridicole, inquietanti e pazzesche mentre le osserviamo.
Elicotteri che atterrano davanti alla porta di casa facendo scattare ogni possibile allarme, nani lanciati come freccette in ufficio, masturbazioni en plen air, sessioni di droga colossali e pisciate su documenti dell'FBI... tutto realmente accaduto. Leonardo DiCaprio parla di Belfort come un moderno Caligola, e la definizone calza a pennello.
In America è subito partita la tiritera del 'ma è un protagonista con il quale non si empatizza, è un grosso difetto'. Un grosso difetto? Calma, qui non stiamo parlando di Alex De Large, questa non è fantascienza sociale o una metafora: è qualcosa che è accaduto davvero, e che probabilmente, da qualche parte e in qualche altro ambito, sta accadendo anche adesso. Ok, Zuckerberg non è stato così esagerato, infatti The Social Network è noiosamente precisino (anche se è un bel film, intendiamoci)... Qui non si deve empatizzare con personaggi di fantasia, qua si cavalca un cavallo imbizzarrito, si parla di uno che 
fa correre leoni tra i corridoi, non capisce perchè la legge gli dia la caccia e pensa che fregare i più fessi sia praticamente giustificato da una legge naturale. Si ride di lui e con lui, ma l'inquietudine regna sovrana. Come per la frase di lancio d'epoca di Non aprite quella porta: E' tutto vero... è tutto vero... è tutto vero!
E alla fine, proprio alla fine, c'è un pazzesco inside joke: il vero Jordan Belfort, il genio del male della truffa, il drogato, immorale, fedifrago, schizzato Wolf of Wall Street, passa la parola a se stesso sotto le sembianze di DiCaprio, come a glorificare la propria attuale attività di guru motivazionale (meditate, gente) per convention ed aziende. Fregandosi le mani di starsene all'estero (lì la Nuova Zelanda, verosimilmente lui se ne sta in Australia) dopo soli 22 mesi di reclusione in un carcere con i campi da tennis, e soprattutto dopo aver restituito poco più di 10 milioni di dollari alle sue vittime a fronte di oltre 110 milioni intascati.
Ah, quanto mi piacerebbe sapere cosa vuol fare nella vita adesso chi lo ascolta per farsi motivare.
Un epitaffio perfetto per una pellicola che non riconcilia per niente, e che dividerà moltissimo.
E va bene così.
[P.S. Il film è DiCaprio-centrico e lui si fagocita tutti, Rob Reiner è grande ma sprecato, le musiche sono come al solito scelte con cura e c'è pure Gloria di Tozzi quando entrano in scena gli italiani...]

sabato 18 gennaio 2014

Perchè American Hustle è una palla colossale (e Gravity una meraviglia)

La risposta ve la fornisco subito. Gravity è cinema, American Hustle no.

La sintesi. Siccome mi piace la sintesi e gli articoli lunghi non piacciono a nessuno, cerco di spiegare in poche parole.
Gravity è un film che si fonda sulla potenza del mezzo cinema, sfrutta le sue potenzialità ed evoca, dopo centinaia di anni, quella antica magia che ormai sembra aver perso. Meravigliare, coinvolgere, far vivere un'esperienza. Scuotere quella dannata poltroncina e farti vivere le sensazioni che il personaggio vive sullo schermo. Con ambizione, consapevolezza, ardito utilizzo della tecnica, affabulazione e immaginazione. Indipendentemente dal giudizio soggettivo, Gravity è un'opera audace che centra il bersaglio, con un'ambizione che va di pari passo alla padronanza dell'auore e regista Alfonso Cuaron dei meccanismi del cinema. Un atto d'amore, un atto di fede. Merita tutti i premi che ha vinto e quelli che non vincerà, soprattutto per regia, fotografia, effetti speciali e sonoro.

American Hustle è il classico film ruffiano fatto d'attori. Regia del sopravvalutatissimo David O. Russell impalpabile, compitino pulito e corretto, sceneggiatura blindata e strabordante di parole, girato quasi interamente in interni, quasi completamente a ridosso degli interpreti. Mi ha fatto venire la claustrofobia. Poi, certo, la storia vera, gli anni '70, il gioco delle apparenze, del 'recitiamo ognuno un ruolo', la trasformazione fisica di Christian Bale e il trucco e parrucco degli altri. Sembra di stare al museo delle cere. Difficilmente in un film che si fonda al 100% sui suoi personaggi ho provato così poca empatia e un senso di forzata artificiosità. E poi la vicenda, diciamolo, ha pochissimo mordente e sfido io a trovare qualcuno che si sia interessato davvero ai fatti narrati, con una dilatazione esagerata di scene e dialoghi. C'è pure la strizzatina d'occhio a Scorsese (il cameo di De Niro, con l'unico vezzo di regia dello zoom usato per bene!).
Insomma: cinema zero. Se contano solo gli attori, tanto vale andare a teatro. Tutti bravi nel cast, col dovuto distinguo: il Golden Globe e la nomination all'Oscar di Jennifer Lawrence, che se continua così tra un paio d'anni la beatificano anche in Vaticano. Per cosa poi, per quello che ormai è il suo cliché nei film drammatici, di donna in crisi di nervi e/o matta? Typecasting portami via. O la vorrebbero premiare solo per le acconciature elaborate e barocche (e allora a Nic Cage quanti premi dovrebbero dare)?

Per concludere: Gravity (lo ripeto e non mi stancherò di farlo) è cinema. American Hustle è (tutt'al più) teatro. Per Gravity, il regista non poteva che essere Alfonso Cuaron. American Hustle potrebbe essere stato girato da chiunque.
Con buona pace di tutti i premi del mondo.

mercoledì 15 gennaio 2014

Serial writer: TRUE DETECTIVE (2014)

E' iniziato il 2014, con l'anno nuovo ci saranno un sacco di novità sul fronte delle serie tv.
Tralasciando quelle inglesi, che sono quasi tutte over the top, cosa conviene iniziare a seguire nel fitto e variegato, e strabordante, panorama seriale americano?
Il pilot di True Detective promette bene. Serie teargata HBO, quindi sappiamo già le caratteristiche: alta qualità di realizzazione, scrittura, cast. Nessuna censura su linguaggio e scene forti. Approccio adulto e sofisticato.
Ottimo. Creata da Nic Pizzolatto (The Killing) che scrive anche il primo episodio, diretto con solidità da Cary Fukunaga, questa serie promette di essere un thriller di quelli solidi. Cittadina rurale della Louisiana, quei posti americani che sembrano dei limbo, con casupole e famigliole modello che confinano con il nulla, le paludi, il degrado sociale e urbano.
True Detective non sarà una serie d'azione, e lo fa capire bene, ma di profondo scavo nei caratteri.
Lo avrei guardato anche solo sulla fiducia per la presenza di Woody Harrelson, anche produttore esecutivo, a cui si aggiunge, nelle stesse doppie vesti di producer/interprete, Matthew McConaughey.
Entrambi, è evidente, credono moltissimo nel progetto e si tuffano a capofitto in una convincente caratterizzazione dei rispettivi personaggi Martin Hart, sbirro "perbene" locale con moglie e bambine (e anche, naturalmente qualcos'altro) e Rust Cohle, taciturno, tormentato, asociale e brillante nelle indagini. Due caratteri tutti da scoprire, in questo primo episodio benissimo scritti e interpretati, senza banalità e con dialoghi secchi e credibili.
C'è poi la narrazione. Omicidio di serial killer a parte, con le "classiche" ombre sataniste e/o rituali a far da contorno, piace che il racconto proceda per sottrazione, dove poco è detto e molto va intuito. Inoltre, a dare sapore alla pietanza, i due piani temporali che da subito si intersecano: nel 1995 i due indagano sull'omicidio, nel 2012 si ritrovano ad essere intervistati da altri poliziotti, per un caso che forse è strattamente connesso a quanto vediamo. Ma come sono andate a finire le indagini? Perchè i protagonisti, dopo quasi vent'anni, non si parlano?
Intelligentemente, la tensione e i misteri ci vengono fatti percepire e nulla più.
Promosso a pieni voti, adesso True Detective dovrà superare la prova decisiva della tenunta, giocando bene i suoi assi drammatici senza scadere nella noia, nella retorica o nella prevedibilità.
Impresa non semplice, ma le premesse ci sono.

UPDATE: Clicca qui per l'analisi dell'episodio finale e della serie!

domenica 12 gennaio 2014

Il Capitale Umano, (in)comprendere un'opera

Nel mare sempre più vasto del'inutilità critica delle opere d'arte (siano ormai dipinte, scritte, filmate o performate live) ci si imbatte ancora, alle volte, in giudizi che fanno cadere le breccia.
Hai voglia a chiamarle opinioni, parola di solito anticipata o seguita dall'assolutorio aggettivo “leggittime”, per far finta di niente: sono giudizi che restano e impongono una riflessione.
Si tratta del classico errore che spesso, da semplici e avvantaggiati fruitori finali, commettiamo con leggerezza: dire “sarebbe stato meglio se...” o simili, mettendo al proprio posto la lettura soggettiva rispetto a quelli che sono gli intenti di chi ha realizzato l'opera in questione.

Il Capitale Umano, di Paolo Virzì, film anomalo nel panorama nazionale in quanto thriller-commedia di costume, racconta un'umanità molto riconoscibile e inizia con la morte di un 'povero' cameriere, investito da un SUV mentre con la sua bicicletta torna a casa dopo il lavoro.
Non lo rivedremo più, se non come comparsa in qualche flashback e sotto forma di notizia nel tg locale. Non è la sua storia che viene raccontata. E' una vittima degli eventi, è colui che, crudelmente, renderà chiaro il titolo del film.
E poi salta fuori qualcuno che rimprovera, anzi, spiega che la pellicola non emoziona perchè non indaga sulla vita della disgraziata vittima e sul dolore della famiglia.
Ancora una volta dobbiamo sentirci dire che c'è bisogno che la sofferenza ti venga sbattuta in faccia per renderla reale, per coinvolgere emotivamente lo spettatore, già di per sé passivo e stracarico di esperienze di racconti di fatalità e di lutti spettacolarizzati.
Adesso, non che Virzì abbia bisogno di una difesa da parte mia, ma se il povero cameriere investito e lasciato agonizzante non è “approfondito” come figura, un motivo ci sarà.
E', anzi, una scelta programmatica fortissima: lascia da parte il motore della vicenda, lo fa aleggiare come uno spettro per tutta la durata, nega il triviale spettacolo del dolore, che già sperimentiamo quotidianamente in televisione, per concentrarsi sulla meschinità della gente che gli ruota attorno, inconsapevole, indifferente, e poi impotente e (spesso) vigliacca.
Se qualche spettatore, e qualche sedicente critico, non ha la capacità di vedere oltre quello che viene mostrato, il problema è soltanto suo.

Il Capitale Umano è un film riuscito, compiuto, anche nelle sue imperfezioni: piaccia o meno, parla del nostro Paese meglio di mille altre opere recenti. A meno che non si vogliano considerare le commedie trash specchio culturale contemporaneo (che allora, probabilmente, parlano bene anche quelle). Anche quando semplifica, tratteggia, abbozza - vedi il consiglio d'amministrazione del teatro che non si farà - Virzì racconta bene la rozza semplicità di alcuni caratteri realmente esistenti.

Un film, non per niente, ispirato ad un romanzo americano e molto “americano” nello svolgimento e negli assunti. Solo che gli americani lo avrebbero fatto senza il bisogno di soldi pubblici.
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