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mercoledì 12 marzo 2014

Serial writer: True Detective, come va a finire una serie già di culto

ATTENZIONE: leggere solo se avete visto TUTTA la serie “True Detective”
Non rovinatevi il finale, gente!
***
Ne avevo già scritto qui dopo il primo episodio. Sembra passato pochissimo, e invece siamo già alla fine degli otto episodi della celebrata serie tv della HBO True Detective.
E che finale. Come nella migliore tradizione delle serie “culto” della tv, TD ci saluta con un episodio conclusivo che lascia molti punti di sospensione e smentisce ogni possibile previsione.
La prima nota che sento di dover fare è: solo io ho pensato che questo episodio sia quasi un corpo alieno nella serie e che potrebbe quasi essere un cortometraggio a sè stante? Diamine, se includiamo anche il recap iniziale abbiamo: dialoghi che squadernano in modo preciso il rapporto tra i protagonisti, l'indagine che arriva ad una svolta con un indizio che non c'entra nulla con le indagini svolte in precedenza, una velocissima procedura che porta all'individuazione del colpevole, la caccia al colpevole, lo scontro finale, lo scioglimento e i saluti. Insomma, un mini-film compiuto.
Certo, una volta terminato il gioco degli incastri temporali e dei disvelamenti menzogne raccontate-verità mostrata la serie ha perso un po' di appeal. Era chiaro che lo scrittore (non uso questo termine a caso, adesso ci torno) Nic Pizzolatto non era interessato allo schema del whodunnit e al colpo di scena sul colpevole, ma creare semplicemente un lungo percorso di (de)formazione e redenzione dei protagonisti. Lo fa in maniera piuttosto esplicita e incurante degli stessi misteri che ha fomentato per lunghi tratti negli episodi precedenti: la gestione di questi ultimi minuti dimostra come l'autore sia stato posseduto dal demone della “letterarietà” e molto meno da quello del “genere” di appartenenza, sia esso noir, poliziesco, horror.
Lovecraft, Dante, Chambers, la Genesi: Pizzolatto ha voluto lavorare da solo alle oltre 500 pagine dello script della serie, ci ha infilato moltissime ossessioni personali, in modo evidente, e ripensando a True Detective nel suo complesso emerge tutta questa autorialità, inedita finora in tv, che è sia un punto di forza che un evidente limite.
Se TD è infatti molto coeso e coerente, manca forse di qualche finezza e alla fine le sbavature che un occhio esterno poteva correggere e sottolineare possono inficiare il risultato globale. I misteri accennati e abbandonati, le false piste seminate per poi disinteressarsene, i dettagli scioccanti (e chi si dimentica più la figlia di Hart che mette in scena uno stupro con le bambole?) senza alcun seguito... tutti elementi che contribuiscono all'atmosfera unica, affascinante e anche malsana della serie, certo, ma che finiscono per lasciare con un po' di amaro in bocca.
Non si deve rimanere abbagliati dalle prestazioni maiuscole degli attori e produttori Matthew McConaughey (osannatissimo, e ci sta) e Woody Harrelson (eccelso, che rischia al solito di finire in secondo piano) o dalla regia elegante, precisa e avvolgente di Cary Fukunaga: True Detective è principalmente figlia del suo scrittore, che ha trasferito gran parte di se stesso in Rust Cohle e Martin Hart, due caratteri precisi e umanissimi, antitetici ma speculari e bisognosi l'uno dell'altro. Con un vero, unico, grande, detective.
Non sorprende quindi la superficiale e sbrigativa trattazione dei personaggi femminili, che solo con Michelle Monaghan-Maggie trovano un reale carattere tridimensionale e di un certo spessore, sebbene spesso bistrattato solo in funzione di far risaltare il lato oscuro del “regular guy” Martin Hart. Il resto sono bambine abusate, figlie disfunzionali, prostitute, libertine (sebbene con carattere, vedi la troppo breve apparizione di Alexandra Daddario) scritte forse con tratti troppo sommari. 
Questo vale anche per il resto dei personaggi maschili, figure poco attraenti e interessanti perchè mai davvero dotate di autonomia e vita. I colleghi del dipartimenti, i capi, i cattivi, i poliziotti che interrogano nel presente Rust e Martin: tutto viene fagocitato e spazzato via dalla dimensione archetipica e centripeta dei due protagonisti assoluti che, a scanso di equivoci, sono trattati talmente bene in sede di scrittura nella loro parabola da giustificare la visione anche solo per questo.
Insomma, Pizzolatto ha fatto un ottimo lavoro, ha creduto moltissimo nelle sue capacità e ha vinto la scommessa: gli si perdonano anche certe leggerezze che soprattutto sul finale hanno lasciato un po' di perplessità. Va bene il vortice infernale dantesco in una visione che è anche metafora dell'esistenza, ma uno showdown cruento e cartoonesco come quello che abbiamo visto lo poteva scrivere un ragazzino di 18 anni in pieno delirio pulp. E forse contrasta col tono del resto della serie. Ma ripeto, la visione dell'autore va rispettata e goduta per quello che è. Persino Rust Cohle, il Michael Jordan dei figli di puttana, che abbandona alla fine un po' del suo tormento ed esce a riveder le stelle: “La luce sta vincendo”. Certo, là fuori ci sono ancora molti stupratori di bambini, persino della stessa cricca a cui i due stavano dando la caccia.


Ma True Detective è stata una personale odissea di due uomini alla ricerca di un senso alla propria esistenza e a quel mondo paludoso che li circonda, e non un procedural qualsiasi, non un noir esistenziale, non un'ordalia horror sui serial killer.

domenica 2 febbraio 2014

Dallas Buyers Club - Dal Texas con l'HIV e senza patetismo

Dallas Buyers Club è un buon film. Nell'era in cui sentiamo esaltare opere dalla portata artistica nulla solo perchè sono emotivamente ricattatorie o ricche di buone intenzioni, un film onesto e rigoroso, che concede poco o niente al baraccone retorico sull'HIV, è qualcosa di cui essere felici.
Supportato dall'interpretazione di quello che ormai è l'attore più virtuoso del momento, quel Matthew McConaughey a cui fino a pochi anni fa sputavo sulle locandine, il film di Jean-Marc Vallée, pur se romanzato e con qualche imperfezione nella gestione drammatica, è ben lontano dai toni e dai modi urlati e imploranti di pellicole che mettono l'esibizione della malattia e della sofferenza davanti a tutto.
I motivi sono diversi: innanzitutto la gestazione della storia, durata per ben 20 anni. Lo sceneggiatore Craig Borten ha intervistato il vero protagonista della vicenda, Ron Woodroof, pochi giorni prima della sua morte, nel 1992. Oltre venti ore di fluviale racconto che è stato più volte rivisto e corretto, proposto e respinto. Adesso, con il copione riscritto assieme alla co-autrice Melissa Wallack, possiamo dire che l'attesa è valsa la pena: la sensibilità di Vallée, già autore di pellicole non fondamentali ma comunque interessanti come C.R.A.Z.Y. e The Young Victoria, riesce a trasformare anche le inesattezze storiche e le invenzioni di sana pianta in punti di forza drammatici. Ovvero la presenza del travestito Rayon, interpretato da Jared Leto con ottima aderenza, e il contrappunto etico-legale della dottoressa Eve di Jennifer Garner. Il primo è fondamentale in quanto rappresenta il cambiamento “in meglio” del protagonista: da texano sbruffone, omofobico e razzista, dopo aver scoperto di avere addosso la “malattia dei froci”, Ron dovrà rivedere molte santino non piace a nessuno) un paladino dei diritti dei diversi, imparerà ad accettare le differenze e ad essere un po' meno rozzo. Certo, Rayon sarà suo socio nello “spaccio” di medicine alternative al praticamente letale AZT somministrato ai sieropositivi, ma Ron dimostrerà con i suoi modi ruvidi di avere a cuore le sorti del suo fragile e tossicodipendente amico.
delle sue ottuse convinzioni, e sebbene non diverrà (e meno male, che il
Un film da vedere, perchè solido e ben diretto: le interpretazioni sono di certo il suo punto di forza, con un McConaughey sugli scudi e scheletrico, con un'intensa carica (auto)distruttiva che si trasforma in coraggio di vivere, come recita la tagline del film. A Woodroof furono diagnosticati 30 giorni di vita: visse altri sette anni da allora, portando avanti una lotta contro un sistema di ignoranza, di speculazione e di scarsa sensibilità. Non un eroe, perchè la battaglia fu condotta anche e soprattutto per ragioni personali, ma una storia che ha un significato profondo da raccontare.
Jared Leto, sebbene molto bravo, mi è parso un po' sopravvalutato dalla critica, per un lavoro sul personaggio forse un po' schematico e già visto. Non contano solo i chili persi: voglio dire, pensiamo al povero Cillian Murphy di Breakfast on Pluto (un Neil Jordan dimenticato dai più).
Curiosità: il film è stato girato in soli 25 giorni con un budget contenutissimo di circa 5 milioni di dollari. Nei soli Stai Uniti ne ha per adesso incassati più di 20 milioni. Scommessa riuscita, dunque, e probabilmente ancora più premiata negli incassi all'indomani degli Oscar.

Dare to live.

mercoledì 15 gennaio 2014

Serial writer: TRUE DETECTIVE (2014)

E' iniziato il 2014, con l'anno nuovo ci saranno un sacco di novità sul fronte delle serie tv.
Tralasciando quelle inglesi, che sono quasi tutte over the top, cosa conviene iniziare a seguire nel fitto e variegato, e strabordante, panorama seriale americano?
Il pilot di True Detective promette bene. Serie teargata HBO, quindi sappiamo già le caratteristiche: alta qualità di realizzazione, scrittura, cast. Nessuna censura su linguaggio e scene forti. Approccio adulto e sofisticato.
Ottimo. Creata da Nic Pizzolatto (The Killing) che scrive anche il primo episodio, diretto con solidità da Cary Fukunaga, questa serie promette di essere un thriller di quelli solidi. Cittadina rurale della Louisiana, quei posti americani che sembrano dei limbo, con casupole e famigliole modello che confinano con il nulla, le paludi, il degrado sociale e urbano.
True Detective non sarà una serie d'azione, e lo fa capire bene, ma di profondo scavo nei caratteri.
Lo avrei guardato anche solo sulla fiducia per la presenza di Woody Harrelson, anche produttore esecutivo, a cui si aggiunge, nelle stesse doppie vesti di producer/interprete, Matthew McConaughey.
Entrambi, è evidente, credono moltissimo nel progetto e si tuffano a capofitto in una convincente caratterizzazione dei rispettivi personaggi Martin Hart, sbirro "perbene" locale con moglie e bambine (e anche, naturalmente qualcos'altro) e Rust Cohle, taciturno, tormentato, asociale e brillante nelle indagini. Due caratteri tutti da scoprire, in questo primo episodio benissimo scritti e interpretati, senza banalità e con dialoghi secchi e credibili.
C'è poi la narrazione. Omicidio di serial killer a parte, con le "classiche" ombre sataniste e/o rituali a far da contorno, piace che il racconto proceda per sottrazione, dove poco è detto e molto va intuito. Inoltre, a dare sapore alla pietanza, i due piani temporali che da subito si intersecano: nel 1995 i due indagano sull'omicidio, nel 2012 si ritrovano ad essere intervistati da altri poliziotti, per un caso che forse è strattamente connesso a quanto vediamo. Ma come sono andate a finire le indagini? Perchè i protagonisti, dopo quasi vent'anni, non si parlano?
Intelligentemente, la tensione e i misteri ci vengono fatti percepire e nulla più.
Promosso a pieni voti, adesso True Detective dovrà superare la prova decisiva della tenunta, giocando bene i suoi assi drammatici senza scadere nella noia, nella retorica o nella prevedibilità.
Impresa non semplice, ma le premesse ci sono.

UPDATE: Clicca qui per l'analisi dell'episodio finale e della serie!
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