-->

Ti piace? Condividilo!

Visualizzazione post con etichetta streaming. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta streaming. Mostra tutti i post

venerdì 25 luglio 2014

Expendables piratati e sacrificabili al boxoffice? Dipende da te

189 mila download in meno di 24 ore.
Sarebbe un bel successo, se si trattasse di qualcosa di legale. E invece stiamo parlando di un film non ancora ufficialmente uscito: The Expendables 3, il nuovo capitolo della saga action firmata da Sylvester Stallone, che riporta sullo schermo vecchie glorie e nuove leve del genere reso cult dalle pellicole degli anni '80.

Non giriamoci intorno: a meno di un mese dalla premiere ufficiale del film, la circolazione di una copia pirata in qualità DVD e questi numeri fanno cadere le braccia.

Ci ritroviamo di fronte ad un dilemma, e stavolta senza la foglia di fico del cinema d'autore che circola poco: chi attenderà un mese per vederselo sul grande schermo? Quanti, invece, preferiranno la comoda e gratuita visione sullo schermo del pc?

Un film d'azione del genere vive dell'incasso in sala dovuto alla "nicchia" di appassionati che, guarda caso, in gran parte (uomini, giovani) ricade nei grandi utilizzatori del download illegale. La frittata è (potenzialmente) fatta.

Il precedente a cui si può fare riferimento è “X-Men - Le Origini: Wolverine” che fu scaricato da 15 milioni di persone un mese prima dell'uscita nei cinema e incassò molto meno di quanto avrebbe potuto (vabbè, era pure un pessimo film...). Se vi consola, colui che uploadò il file pirata è finito in carcere e Megaupload, beh, sappiamo com'è finita.

Adesso, i cosiddetti amanti del cinema, del genere action, dell'arte e dei vecchi miti gloriosi degli anni '80 sono chiamati ad una scelta di campo. Affossare i propri beniamini o sostenerli fino alla fine, scaricare o vedere in sala, stare comodi o sostenere il (tanto amato?) cinema.

giovedì 17 luglio 2014

Il web, il progresso e i cadaveri della middle-class

Jaron Lanier
Il web è democrazia, libertà, rivoluzione?
Questo è certo, come è certo che la costruzione del futuro, anche via web, passa attraverso alcuni cadaveri molto reali.


Andiamo con ordine: dopo aver parlato (grazie allo spunto di un bel docufilm) di come l'impoverimento della classe media ci abbia portato al deprimente stato di cose in cui viviamo, mi sono imbattuto in un gran bell'articolo a firma Riccardo Staglianò dove a prendere la parola è niente meno che uno dei guru e dei profeti del web e della realtà virtuale, quel poliedrico Jaron Lanier che spazia dalla musica alla programmazione alla profezia di ciò che sarà come niente fosse.

E' un bel pezzo di giornalismo, e merita di essere letto da cima a fondo. Alcuni concetti espressi da Lanier sono di una semplicità e di una concretezza disarmante:
«Ci piace la musica gratis, ma poi gridiamo allo scandalo per l’orchestrale nostro amico che non ha più fondi. Ci eccitiamo per i prezzi online stracciati, e poi piangiamo per l’ennesima serranda abbassata. Ci piacciono anche le notizie a costo zero, e poi rimpiangiamo i bei tempi in cui i giornali erano in salute. Siamo felicissimi dei nostri (apparenti) buoni affari, ma alla fine ci renderemo conto che stiamo dilapidando il nostro valore»



Lavoratori (del/sul) web
Niente di più vero. Riflessioni forse ridondanti per chi è abituato ad analizzare la realtà e vedere i cambiamenti in atto, ma alla stragrande maggioranza delle persone questa consapevolezza ancora manca. Soprattutto perché il mercato (ma quale, ormai?) spinge in una direzione strana, e i consumatori - se ancora possiamo chiamarli tali - si sono adagiati su un sistema dove tutto o quasi si può trovare gratis e a prezzi stracciati, uccidendo in un passaggio traumatico quel poco di classe media e piccola imprenditoria rimasta.

La rivoluzione digitale, sia benedetta e/o maledetta, sta lasciando da anni e con sempre maggiore frequenza una scia di morti nel suo galoppo, e per ogni Kindle chiudono due librerie, lo sappiamo. Per ogni brano scaricato musicisti non affermati annegano nell'indigenza. E così via.


Over(social)flow
Non solo offline: anche sulla rete chi sta in mezzo muore, chi non impegna le sue giornate ad essere "qualcuno" è tagliato fuori dal giro che conta e dal mercato che si sta sviluppando. I mezzi sono diversi ma la logica è la stessa, declinata ad un individualismo-egocentrismo (personal branding o corporate marketing che sia) dove le regole sono più subdole ma la sostanza è la stessa: emergere, vincere sulla concorrenza, fare affari.


Driveless car
Ma non è che un singolo aspetto nel mare della vita reale e del quotidiano. Pensiamo a lavori del settore "servizi" come quelli del traduttore, con Skype che annuncia la traduzioni in tempo reale della conversazioni. Del tassista, con le driveless car alle porte. Del commercialista, minacciato da sistemi automatici sempre più precisi che calcolano perfettamente cifre e importi.

Lascio la chiosa ancora a Lanier:
«Per quanto faccia male dirlo, potremo anche sopravvivere distruggendo solo la classe media composta da musicisti, giornalisti e fotografi. Ciò che non è sostenibile è la distruzione di quella che lavora nei trasporti, nella manifattura, nel settore energetico, nell’educazione e nella sanità, oltre che nel terziario. E una tale distruzione accadrà, a meno che le idee dominanti sull’economia dell’informazione non facciano dei passi avanti»

Se ti va, puoi leggere anche:
- La classe media? E' stata uccisa...
- Anche il giornalismo si delocalizza. In Albania.
- Carenza di onestà (ed eccesso di informazione)

venerdì 27 giugno 2014

The Raid 2, la recensione: più mazzate e meno trama, grazie!

Qual è la quintessenza del cinema d'azione di arti marziali?
La gioia delle mazzate nei denti, ovvio. Quand'è, quindi, che un prodotto diventa il migliore della sua categoria? Ad occhio e croce, quando le mazzate sono talmente tante e ben coreografate da rendere superfluo tutto il resto.

Questo era The Raid (2011). Non appena uscito, il film indonesiano del gallese Gareth Evans è diventato immediatamente un cult: trama poca o nulla, lo spettacolo del pencak silat, l'arte marziale del suo protagonista Iko Uwais, un'ora e mezzo di azione senza sosta e stuntman pazzi che prendevano botte da orbi e volavano giù dalle scale atterrando di schiena sui balconi. Il pretesto di un assalto di una squadra della polizia all'edificio di un boss locale si trasformava in una mattanza a mani nude claustrofobica e vertiginosa.

Insomma: il futuro del cinema d'azione si è spostato in Indonesia, dopo un occidente ripulito da sangue e cattiveria e Giappone e Cina/HK vittime di un funambolismo sterile.

Dopo il successo in patria e anche all'estero, complice la distribuzione americana con le musiche di Mike Shinoda, per The Raid era inevitabile l'arrivo di un sequel, che prende le mosse da un progetto precedente di Evans, in stand-by perché troppo ambizioso: Berandal, divenuto dunque il sottotitolo di The Raid 2.

Che sia un progetto ambizioso si capisce subito. Ambiente criminale e faide tra clan di razze diverse, scontri generazionali familiari, tradimenti, poliziotti infiltrati. Roba da John Woo, Johnnie To e perfino Scorsese. Per fortuna Evans non si sopravvaluta e mantiene l'azione al centro di tutto. Purtroppo, questo centro traballa molto perché sottoposto a diverse scosse telluriche: quelle di una trama abbastanza banale e allungata, di scene superflue e di personaggi macchiettistici.

Intendiamoci: The Raid 2 impone di credere ad un universo dove le armi da fuoco sono praticamente bandite e tutto si risolve utilizzando armi bianche e mani nude. E fin qui va bene. Ma puntare due ore e mezzo di film sullo stravisto schema del figlio ingrato e arrivista e del poliziotto sotto copertura è un azzardo. Per non parlare di due personaggi che spuntano dal nulla (e rimangono nel nulla) troppo ridicoli per risultare interessanti: Hammer Girl e Baseball Bat Boy – non hanno nomi – oltre a non essere grandi combattenti sono veramente troppo sopra le righe per non risultare goffi tentativi di omaggiare il cinema di altri paesi orientali o Tarantino. Altra ingenuità, l'incredibile fanservice con le lunghe sequenze con Yayan Ruhian (il leggendario Mad Dog del primo film), che sebbene siano belle e spettacolari, poco aggiungono al resto della pellicola e appesantiscono la durata.

Ciò detto, mi ricollego all'incipit: le mazzate ci sono, e sono epocali. Praticamente ogni scena di lotta è da antologia. Tranne le brevi sequenze mirate solo a destare lo spettatore dalle troppe scene di raccordo, tutto il resto umilia il cinema d'azione contemporaneo: dalla mega rissa nel fango in prigione, alla sequenza sull'auto, ai combattimenti finali contro i due mocciosi antipatici e il braccio destro del boss cattivo (quest'ultimo il top del film).


Iko Uwais è in formissima, gli avversari non gli sono da meno. Il risultato è il miglior cinema d'azione che si sia visto dai tempi di... The Raid. Se siete disposti a sopportare qualche scena statica di troppo e una trama per niente originale, avrete di che godere. 

Fargo, la prima stagione tv colpisce ma non stupisce

La serie tv di Fargo è arrivata alla fine.
Il giudizio è complesso: grande qualità e intrattenimento di alta classe, certo, ma anche una miniserie in 10 episodi che ha faticato a trovare un'identità ed una coerenza interna.

L'andamento rapsodico legato soltanto dal sottile filo dell'indagine della caparbia Molly Solverson (Allison Tolman) sull'ambiguo Lester Nygaard (Martin Freeman) ha finito per essere un palcoscenico per l'istrionico Billy Bob Thronton nei panni dell'assassino multiforme Lorne Malvo.
Una figura archetipica, fortemente metaforica (come i fratelli Coen insegnano) ma forse un po' troppo compiaciuta e irrisolta, sebbene dal forte carisma.

Fargo è un prodotto che si è fin da subito rivelato molto legato al prototipo cinematografico, e che ha confermato pregi e difetti del voler trasportare una filosofia prettamente da grande schermo come quella dei Coen (una storia esemplare e circolare in due ore) su quello piccolo.
Non tutto è perfetto. Soprattutto quando si cercano di portare nella serialità le ellissi e i paradossi coeniani, con il risultato che certi personaggi rimangono in sospeso (il killer sordomuto), meccanici e banali (Bill), superflui e irritanti (i due agenti dell'FBI).

La serie, nello spirito, rimane fedele e rispecchia quello strisciante nichilismo e il pessimismo che erano proprio del Fargo cinematografico.
I soldi e l'avidità rovinano la vita, il delitto comporta sempre un castigo, le circostanze rendono l'uomo gretto e spietato, la redenzione è quasi impossibile, la violenza chiama sempre altra violenza in una spirale dolorosa e paradossale.
Al tempo stesso, la serie esalta le qualità della “gente comune” e dipinge un microcosmo dove chi rimane fedele alle proprie idee e ai propri valori, soprattutto quelli semplici ed essenziali, ne esce vincitore (o comunque vivo).

Un esperimento di connubio cinema-tv interessante, perché non si limita ad essere un semplice sequel o remake (sebbene ci sia una strizzatina d'occhio ad una continuity con la pellicola, per chi la becca), ma un'opera che dialoga in modo interessante con il modello di riferimento.
Opera di alta tv che non raggiunge l'eccellenza ma intrattiene con grande intelligenza, cercando coraggiosamente di premere qualche tasto che mina la classica struttura televisiva: vedi le digressioni narrative, il gusto del racconto di aneddoti, le frasi e le situazioni non spiegate ma affidate all'interpretazione soggettiva dello spettatore.


Cast superbo e affiatato, regia puntuale e geometrica, scrittura eccellente hanno fatto il resto: da vedere, con la consapevolezza che forse si troverà l'insieme al di sotto del valore delle sue singole componenti.

E adesso? Puoi leggere anche:

venerdì 11 aprile 2014

Il dramma del cinefilo ai tempi dello streaming

Premetto: non ho visto La Leggenda di Kaspar Hauser di Davide Manuli.
E me ne rammarico. Ma ci torniamo poi.
In questi giorni, girovagando per la rete e vari social, ho notato un'impennata di discussioni su questo film (purtroppo distribuito poco e male all'epoca della sua uscita, circa un anno fa) e, facendo una veloce ricerca, ho ricondotto questo fatto alla sua 'diffusione' attraverso il noto sito di film in streaming cineblog01.
Come probabilmente saprete, cineblog01 è uno degli spauracchi dell'industria cinematografica, dove – splat – trovate i link attraverso i quali potete guardare comodamente sul vostro pc/tablet/smartphone in streaming film appena usciti in sala (solitamente qualità cam da vomito), che devono ancora uscire ufficialmente (spesso video ok e audio orrendo), o film già usciti in home video (qualità solitamente decente, dvd-rip). 
C'è anche una bella sezione di film in lingua originale con i sottotitoli, grazie a traduttori volontari e velocissimi che si adoperano su vari forum e siti, e che non ricevono mai abbastanza ringraziamenti (non parliamo poi del loro lavoro per le serie tv!).
Io ho un brutto difetto: tendo a non demonizzare nulla per partito preso, perchè ho sempre il timore di finire per assomigliare a Paola Binetti che sbava incazzandosi per i matrimoni gay o l'uso del preservativo.
Quello che mi fa un po' riflettere è l'atteggiamento di alcuni cinefili (sedicenti o riconosciuti, senza distinzione alcuna) che pontificano sulla natura demoniaca dello streaming salvo poi farne evidente uso, compulsivo o meno, per stare al passo con le uscite e farsi le loro belle recensioni-staus-post-note-videosuyoutube-sparateinbirreria-discorsiconlamamma.
Lo streaming (ma anche il download, sì) è un paradossale nuovo tabù sorto ai tempi di internet per i "veri cinefili", è a portata di tutti ma troverai sempre l'illuminato che finge di non saper neppure come di digitano certi indirizzi nella barra del browser, e che ha abbastanza milioni da vedersi tutto in sala e/o a nolo, in DVD o blu-ray.
Poi. Kaspar Hauser non l'ho visto. Nemmeno, credo, lo vedrò a breve. 
Non mi nascondo dietro una foglia di fico: vado spesso al cinema, così come ogni tanto mi guardo film in streaming oppure mi compro blu-ray (ahimè, come tanti di voi là fuori adoro possedere fisicamente i film che mi piacciono a scapito del bilancio familiare).
Prima di prendercela con qualcuno e stracciarci le vesti gridando allo scandalo però, facciamoci tutti un esamino di coscienza.
Nessuno può costringere con la pistola alla tempia le persone ad andare al cinema. E, se un film interessa davvero, al cinema ci si va senza che nessuno ti debba fare l'incoraggiamento alla visione.
Altrimenti a fare il predicozzo poi si diventa demenziali come il famoso e fortunatamente scomparso spot antipirateria “Non ruberesti mai una borsa-un'auto-un trattore leghista modificato in tank”...
Prima di fare i censori e i moralizzatori (azz, ora mi scatta l'orticaria) pensiamo a non essere degli ipocriti difensori dell'arte che magari contribuiamo a rendere antipatica con dei pipponi assurdi e con uno snobismo intellettuale, quello sì, brutto e deleterio.
Google
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...