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venerdì 27 giugno 2014

Fargo, la prima stagione tv colpisce ma non stupisce

La serie tv di Fargo è arrivata alla fine.
Il giudizio è complesso: grande qualità e intrattenimento di alta classe, certo, ma anche una miniserie in 10 episodi che ha faticato a trovare un'identità ed una coerenza interna.

L'andamento rapsodico legato soltanto dal sottile filo dell'indagine della caparbia Molly Solverson (Allison Tolman) sull'ambiguo Lester Nygaard (Martin Freeman) ha finito per essere un palcoscenico per l'istrionico Billy Bob Thronton nei panni dell'assassino multiforme Lorne Malvo.
Una figura archetipica, fortemente metaforica (come i fratelli Coen insegnano) ma forse un po' troppo compiaciuta e irrisolta, sebbene dal forte carisma.

Fargo è un prodotto che si è fin da subito rivelato molto legato al prototipo cinematografico, e che ha confermato pregi e difetti del voler trasportare una filosofia prettamente da grande schermo come quella dei Coen (una storia esemplare e circolare in due ore) su quello piccolo.
Non tutto è perfetto. Soprattutto quando si cercano di portare nella serialità le ellissi e i paradossi coeniani, con il risultato che certi personaggi rimangono in sospeso (il killer sordomuto), meccanici e banali (Bill), superflui e irritanti (i due agenti dell'FBI).

La serie, nello spirito, rimane fedele e rispecchia quello strisciante nichilismo e il pessimismo che erano proprio del Fargo cinematografico.
I soldi e l'avidità rovinano la vita, il delitto comporta sempre un castigo, le circostanze rendono l'uomo gretto e spietato, la redenzione è quasi impossibile, la violenza chiama sempre altra violenza in una spirale dolorosa e paradossale.
Al tempo stesso, la serie esalta le qualità della “gente comune” e dipinge un microcosmo dove chi rimane fedele alle proprie idee e ai propri valori, soprattutto quelli semplici ed essenziali, ne esce vincitore (o comunque vivo).

Un esperimento di connubio cinema-tv interessante, perché non si limita ad essere un semplice sequel o remake (sebbene ci sia una strizzatina d'occhio ad una continuity con la pellicola, per chi la becca), ma un'opera che dialoga in modo interessante con il modello di riferimento.
Opera di alta tv che non raggiunge l'eccellenza ma intrattiene con grande intelligenza, cercando coraggiosamente di premere qualche tasto che mina la classica struttura televisiva: vedi le digressioni narrative, il gusto del racconto di aneddoti, le frasi e le situazioni non spiegate ma affidate all'interpretazione soggettiva dello spettatore.


Cast superbo e affiatato, regia puntuale e geometrica, scrittura eccellente hanno fatto il resto: da vedere, con la consapevolezza che forse si troverà l'insieme al di sotto del valore delle sue singole componenti.

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domenica 27 aprile 2014

Mi sono (ri)visto Fargo (il film, e poi il pilot della serie tv)

Fargo (1995): vedi alla voce "iconico"
Dunque, com'è la serie tv ispirata a Fargo, memorabile film del 1995 dei fratelli Coen?
Facciamo un passo indietro. Per avere un quadro preciso mi sono fatto una full immersion rivedendo con piacere l'opera originale, gioiellino da ripassare doverosamente e/o da recuperare subito per chi non lo conoscesse, e subito dopo l'episodio pilota della nuova miniserie in 10 episodi del canale FX.
Fargo (il film) nasce come libera reinterpretazione di fatti cronaca che macchiarono la tranquilla e fredda provincia americana tra il North Dakota e il Minnesota. Un sagace apologo, intriso di nera ironia, della pochezza e dello squallore umano, affidata ad un cast strepitoso (Frances McDormand, William H. Macy, Steve Buscemi, Peter Stormare) e, come spesso accade, centrato sul tragico destino di chi non ammette le proprie colpe e si fa sopraffare dall'avidità. 
Fargo (1995): William H. Macy splendido, patetico, idiota.
I Coen, che vinsero l'Oscar per la sceneggiatura, mettono un cartello in apertura che avverte che tutto quello che vedremo è vero, anche se la vicenda in sè, in realtà, non lo è affatto: eppure non dubitiamo mai per un minuto, anche grazie alla ricostruzione fredda e cronachistica, la scrittura calibrata al millimetro delle psicologie e la bravura degli interpreti, che quello che vediamo abbia potuto avere un fondamento di realtà. 
Quello che va detto è che il Fargo cinematografico è un'opera perfetta così com'è, talmente in equilibrio nei toni e compiuto nella sua riuscita da sembrare impossibile da trasporre in una serialità. E qui va subito riconosciuto al creatore Noah Hawley (Bones, The Unusuals) di aver avuto l'onestà intellettuale e l'umiltà di non cercare di replicare il modello ma di affiancarglisi soprattutto nei toni e nei modi, anzi, nel mood.
Fargo (2014): la McDormand era incinta, la Tolman è cicciottella.
Così, dopo i "canonici" avvertimenti che stiamo per assistere a una storia vera, ci troviamo davanti una spruzzata di Lynch e molto degli stessi Coen (che figurano non a caso come produttori) per un pilot della serie televisiva di Fargo che rivela un carattere fondato soprattutto nelle atmosfere rarefatte, nella comicità bizzarra e nel quadretto quotidiano della cittadina immersa nella neve sotto la quale pulsa la follia. 
C'è poi un cast di lusso guidato da Martin Freeman (che raccoglie il testimone di Macy del mite imbranato che rivela il suo lato oscuro) e da un Billy Bob Thornton a cui spetta il ruolo più difficile, affascinante ma a rischio deja-vu del killer misterioso e carismatico, figliastro ideale del Bardem di Non è un paese per vecchi. Completano il quadro la poliziotta giovane e sveglia di Allison Tolman, il vecchio Keith Carradine e lo sbirro debole di stomaco Bob "Saul Goodman" Odenkirk.
Fargo (2014): Martin Freeman, imbranato (ma forse, cattivello)
L'avvio, non perfetto e un po' banale in alcuni dialoghi, è comunque interessante, sebbene presenti già più morti ammazzati che nell'intero film dei Coen. Le potenzialità dei caratteri e della trama sono molto grandi, e il progetto sembra capace di stupire fino all'ultimo episodio. 
La serie dovrà però evitare di cadere nello stereotipo della "small city, big secrets" e dello scimmiottamento delle atmosfere alla Twin Peaks. Al tempo stesso, deve trovare una strada autonoma per i personaggi, rendendoli coeniani nello spirito ma evitando di trasformarli in macchiette ispirate al lavoro dei due fratelli.
Ci può riuscire, e i pochi episodi possono consentire un'ottima gestione del plot.
Se hai visto il film o la serie, lascia un commento con le tue impressioni! 
Sono curioso di sapere che ne pensi.

lunedì 10 febbraio 2014

A proposito di Davis: l'insostenibile repulsione del talento

1961. Il folk non è ancora un genere che interessa alle major musicali e nel panorama underground newyorkese gli interpreti sgomitano per emergere, tra esibizioni ad offerta libera, incisioni di gruppo, dormite sui divani di chi sta meglio, e così via. I fratelli Coen, con A proposito di Davis, dipingono un affresco ben riuscito e agrodolce attraverso una figura minore di quell'epoca, l'immaginario Llewyn Davis modellato sul realmente esistente Dave Van Ronk. Perchè a loro piacciono i perdenti, i tormentati, i complessi: e difficilmente qualcuno sa ritrarli con amorevole distacco e oggettiva passione come loro. Un'opera straziante e divertente che traccia realisticamente il profilo di un talento “non così talento” e lo segue in un breve tratto della sua sgangherata esistenza senza cadere, nemmeno per un secondo, nel patetico o nel tranello di finire per tratteggiarlo come uno a cui tutto va male perchè è “un poverino”.
Llewyn è un personaggio sfaccettato, indolente, troppo sicuro di sé sul versante artistico quanto bisognoso di conferme su quello umano. Distratto, arrogante, disordinato, menefreghista, immaturo, ma anche sensibile, adorabile per certi versi, eppure spigoloso e poco socievole: un vero e proprio riccio pronto a chiudersi di fronte a chiunque non sappia riconoscere il valore della sua persona e della sua arte, non troppo semplice da scorgere sotto quella scorza.
Che i Coen non vogliano farcelo amare, e rigettino il meccanismo dello “sfigato che ami in quanto sfigato”, è chiaro da come ce lo mostrano rapportarsi agli amici, ai parenti, alle amanti e a più riprese alla delicatissima responsabilità di essere (forse) padre. 
Quindi, quasi ad equilibrare, ci tirano in mezzo un gatto, Ulisse, che a differenza di lui sa ritrovare la strada e tornare a casa (vera o simbolica che sia), ed ha un sosia identico e altrettanto bello, simpatico e intelligente. Ecco, a me questo filo conduttore del gatto, per quanto elegante e per niente pretestuoso, non ha intrigato più di un tot. Il gatto è una facile scappatoia e una facile metafora per riempire buchi e dare consistenza al personaggio umano. Ma forse dipende dalla mia sostanziale freddezza verso i gatti: sono sicuro che invece sarà un elemento apprezzatissimo dalla stragrande maggioranza di pubblico e critica.
Non è facile comunque digerire tutto il film, specialmente nella sua parte centrale forse un po' troppo compiaciuta, quella del viaggio a Chicago con due improbabili compagni di auto, il vecchio jazzista logorroico e supponente di John Goodman e il suo taciturno “valletto” Garrett Hedlund, che pare non essere uscito dall'auto di On the Road. Eppure anche lì, dopo la sequenza dell'arrivo con quel piede ficcato nella neve e il tormentato provino con il leggendario produttore Bud Grossman (ovvero l'iconico F. Murray Abraham), torniamo più che mai a fare il tifo per Llewyn Davis. Che sarà costretto, forse un po' ingiustamente, ad abbassare la cresta. E il suo orgoglio gli impedirà di acciuffare in extremis un'opportunità forse poco stimolante ma comunque capace di farlo rimanere nel giro.
Una struttura circolare, quella del film, che si apre e si chiude su una bellissima esecuzione di “Hang me, oh hang me” da parte di Llewyn, nel piccolo e fumoso Gaslight Cafè, prima di pagare l'ennesimo prezzo del suo caratteraccio. Lì, messo a terra e accasciato contro il muro, ci saluta un Davis che forse ha abdicato la sua arte per un futuro triste e marinaresco, o forse no. Le nostre strade si dividono, mentre sappiamo che quelle del folk rock avranno un protagonista (quello sì, epocale) che abbiamo appena intravisto calcare il palco dopo il nostro personaggio.

Realizzato in maniera formalmente impeccabile e con cast ispirato, dal protagonista Oscar Isaac che canta come non ci fosse un domani alla coppia Carey Mulligan (tanto scorbutica nel privato quanto delicata nel canto) - Justin Timberlake, con il solito occhio perfetto e irresistibile per comprimari e caratteristi, Inside Llewyn Davis è un film che farà la gioia dei musicofili americanofili, che rimane una visione piacevolissima per tutti gli appassionati di cinema, ma che, come la sua narrazione, rimane un po' piegato su se stesso. Però, a uno come Llewyn Davis, alla fine gli si vuole bene nonostante tutto. Ed è un miracolo che riesce solo al grande cinema.
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