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lunedì 25 agosto 2014

Il contenuto utile è il Santo Graal. Ma come trovarlo?

Fonte
Fermo lì, gentile lettore, rimani incollato a questo articolo: ti spiegherò quanto e come un post nel tuo blog può essere (ritenuto) utile.

Ok, ci ho provato. Non sono ancora particolarmente bravo negli “attacchi” dei post, eh?
Quello che ho tentato di fare è lanciarti una secchiata d'acqua fredda nella prima riga e mezzo, per poterti presentare una piccola riflessione su ciò che si intende per contenuto utile.

Dopo mesi di letture in lungo e in largo per il web, su temi che riguardano informazione, social media, marketing e tecnologia, ho – da modesto giornalista quale sono – rilevato una semplice suddivisione di tipologie di utilità, che tu, scafato surfer internettiano, magari troverai ovvia. Però...

Tutorial (inglobo qui anche l'elenco di risorse), commenti & notizie, post “di sostanza” (temi generali, elaborazione di dati, teorie). Tralascio – al momento – interviste e recensioni, utili sì ma spesso in ottica di “semplice” smm, mentre i guest post possono ricadere in ognuna delle categorie sopra esposte.

Per uno come me che arriva dal mondo giornalistico, il tutorial è un po' come la notizia “di servizio”, fatta di elementi utili ma non interessante in sè. È vero, rimane per chi lo ha scritto un “patrimonio” dalla vita lunga, che non scade per molto tempo e che probabilmente otterrà accessi giornalieri costanti per diversi mesi, se non addirittura anni – fino al prossimo aggiornamento del sistema affrontato.

Ci sono poi i post che commentano notizie o fatti “del giorno” (es. la campagna #coglioneno, il dibattito sul giornalismo online) che sono l'equivalente delle notizie di cronaca nera o i lanci ANSA sulle dichiarazioni dei politici: spesso sono riflessioni di un certo interesse ma nascono e muoiono in quel preciso istante ed hanno un periodo di vita abbastanza breve, considerato anche che non possono essere aggiornate, se non in modo limitato ed episodico.

Infine, abbiamo i post “di sostanza”. Laddove nel mondo dell'informazione un articolo narrativo su un grande tema – lo storytelling applicato ad un fatto, elevato a sociologia - può raccogliere innumerevoli clic e avere una vita editoriale potenzialmente infinita, così alcuni post dedicati alle questioni centrali e cruciali dei social media, di internet e del web marketing possono durare in eterno.

Questa, per me, è la vera utilità che va oltre il (semplice?) risolvere un problema immediato dell'utente generico del www.

Non è sempre vero che un articolo breve è un articolo di successo (e viceversa). Lo è, spesso, in relazione alla chiarezza espositiva e alla gradevolezza della formattazione del testo. Un post di content marketing non è una pallosa nota politica: il pubblico che legge un articolo sui social o su un argomento che gli sta particolarmente a cuore, nonostante vada adescato con un incipit fenomenale, avrà una soglia d'attenzione più alta e non gli peserà la manina per scollare un po' in basso.

Statisticamente parlando, è anche più probabile che un utente, leggendo un articolo bello, illuminante e ricco di spunti, sia stimolato a salvarlo nei preferiti e a mandare a memoria il nome dell'autore (che poi verrà seguito su Twitter, sulla sua pagina FB, su LinkedIn...) rispetto ad un semplice tutorial.

Correggimi se sbaglio, ma spesso se vai a consultare un tutorial lo utilizzi soltanto per risolvere la tua necessità del momento e poi lo chiudi, a meno di non trovare qualcosa di veramente interessante.

Questo ci insegna che, certo, bisogna essere fighi anche nello scrivere delle semplici istruzioni (altro che il manualetto della radiosveglia!).

E tu come la pensi?

...e se hai voglia di leggere ancora qualcosa...
- Come utilizzare meglio i social (e non deprimerti)
- L'idea (è) l'azione: tre consigli (e un esempio)
- Prima di pensare al successo... migliora te stesso!

martedì 5 agosto 2014

Diritto all'oblio, anche Wikipedia sparisce da Google

Anche Wikipedia deve piegarsi al diritto all'oblio: una delle sue pagine (non è stato specificato quale, però) sta per "sparire" dai risultati delle ricerche di Google
A confermarlo è lo stesso Jimmy Wales, fondatore dell'enciclopedia web: un caso che costituisce un precedente unico.

Le riflessioni e le polemiche non si fanno attendere, mentre, inesorabili, vanno avanti grazie alla sentenza della Corte Europea le rimozioni delle indicizzazioni dai motori di ricerca delle pagine considerate "inadeguate, irrilevanti, eccessive" dietro richiesta dei diretti interessati. 

Anche se è soltanto un giocare a nascondino e non una vera e propria eliminazione dal web, la domanda è sempre la stessa: è giusto far sparire il proprio passato, soprattutto se si va a toccare il diritto ad essere informati delle altre persone? 

Wikipedia, nella persona di Wales, sarà presente al grande meeting di Google previsto a settembre sul tema del diritto all'oblio e alle strategie per affrontarlo nella maniera migliore. Certo è che il concetto espresso finora dall'organo di Giustizia dell'Europa necessita una revisione, sia a livello di principio che di applicabilità.
 Finora infatti ci si limita a dare potere ai soggetti privati, che in modo arbitrario possono chiedere la rimozione di contenuti dai motori di ricerca, andando a intaccare i diritti di accesso alle informazioni della collettività. 

Pensiamo a quest'ultimo preciso caso: negare l'accesso ad una voce dell'enciclopedia più letta del web attraverso il motore di ricerca più utilizzato di internet è di fatto come strappare una pagina fisica da un libro della biblioteca più grande del mondo e nasconderla altrove. Ha senso?  

venerdì 25 luglio 2014

Google si "dimentica" 160 mila link: primi effetti del diritto all'oblio

Oltre 160 mila link de-indicizzati.
Ecco i primi risultati del diritto all'oblio stabilito dalla Corte Europea, almeno per quanto riguarda il motore di ricerca numero uno al mondo, Google.
Andate a rileggere qui di cosa si parla (realmente) quando di parla di oblio... il Wall Street Journal riporta che Google ha già fornito dei dati in via ufficiosa alla UE dichiarando di aver "rimosso" migliaia di link dai suoi risultati, accogliendo circa metà delle richieste avanzate dai vari utenti (per un totale di oltre 300 mila). Dunque Mountain View ha preso sul serio la questione, e la mole di lavoro che ne deriva, rispondendo ad oltre 91.000 persone che ritenevano di essere oggetto di informazioni "incomplete e scorrette", dando il via libera in almeno la metà dei casi alla rimozione dell'indicizzazione dei link incriminati.

Questo apre un sacco di interrogativi: sarà uno strumento che alcuni utilizzeranno per far rimuovere (o meglio, far nascondere) informazioni indesiderate su se stessi, negando magari un sacrosanto diritto all'informazione? La verifica della legittimità delle richieste e i criteri secondo i quali queste saranno messe in atto sarà davvero oggettiva e uguale per tutti? 

Di sicuro, al momento, faremmo meglio a tenere tutti gli occhi puntati su Google, che si ritrova - stavolta suo malgrado - a fare da testa di ponte per una rivoluzione tutta europea che presto potrebbe arrivare in altri continenti. 

In chiusura, vediamo i dati che riguardano i vari Paesi: al 18 luglio 2014 guida la "classifica" dei cittadini pro-oblio la Francia, con 17.500 richieste di rimozione, seguita dalla Germania con 16.500, dall'Inghilterra con 12.000, dalla Spagna (8.000) e infine dall'Italia (7.500). Al momento, sembriamo i meno interessati a questo strano modello di protezione della privacy.

giovedì 24 luglio 2014

Se la condanna a morte è una tortura

Ieri (mercoledì 23 luglio), in Arizona, è stata eseguita la condanna a morte di Joseph R. Wood, 55 anni, colpevole di duplice omicidio.

Potrebbe anche non essere una notizia, nei democratici USA, ma lo diventa per il record di durata della pena capitale. Si può uccidere un uomo per due ore? Adesso possiamo dire di .

Solitamente, l'iniezione letale - che dovrebbe essere indolore - impiega una decina di minuti per fare il suo dovere. Peccato che, a quanto pare, i nuovi composti non siano il massimo dell'efficienza. Certo, abbiamo già assistito ad esecuzioni che durano circa una mezz'ora, e anche di più, ma questo non giustifica l'inutile sofferenza imposta ad un condannato a morte.

Attenzione, non intendo entrare nel dibattito sull'opportunità o meno della pena di morte, sul quale ognuno ha la sua idea ed ha il diritto di difenderla. Quello che mi chiedo, e ti chiedo, è: ha senso trasformare in una tortura prolungata quella che, per legge - vedi l'ottavo emendamento della costituzione americana - dovrebbe evitare di "infliggere pene crudeli e inconsuete"?

Chi la considera una questione secondaria rispetto ad altre, dovrebbe riflettere sul fatto che stiamo parlando di uno Stato che dispone della vita di un essere umano, colpevole (o meno, come la storia insegna) che sia di nefandezze varie.  

Per quasi tutto il tempo dell'esecuzione, secondo fonti ufficiali, Wood ha agonizzato, nonostante la famigerata governatrice dell’Arizona, la repubblicana Jan Brewer, neghi ogni complicazione. 

C'è inoltre da considerare un fatto particolare: proprio per l'inefficienza delle sostanze che vengono iniettate nei condannati, sempre più spesso negli ultimi anni le sentenze vengono rimandate, e stiamo assistendo, in USA, ad una progressiva diminuzione delle pene capitali.

mercoledì 16 luglio 2014

Delocalizzazione del giornalismo: dall'Albania con furore (forse)

Quanto facevano i furbi, i giornalisti, occupandosi delle questioni della delocalizzazione di fabbriche e produzioni varie, pontificando (quelli dalla verve opinionista) sul fatto che "il prodotto italiano deve essere italiano", magari sicuri del fatto che scrivere è una professione dove si sta comodi nei "paesi nostri"?

Beh, cade un altro tabù del giornalismo: quello italiano si farà (anche) a Tirana, Albania, con l'esperimento di cui è portabandiera l'ex conduttore di Matrix Alessio Vinci.

Agon Channel, questo il nome della nuova realtà (con capitali italici di Francesco Becchetti), scende dunque nell'agone mediatico e promette di farlo con uno slogan controverso: "Saremo la Ryanair dell'informazione". Cioè, low-cost... ma con quali vantaggi per l'utente tv, dato che dei "valori aggiunti" che sono il sale del giornalismo, Ryanair ne fa volentieri a meno?
Se si parla di abbattere i costi per realizzare trasmissioni in studio, allora è ok. Altrettanto importante è richiedere ai giornalisti di sapere confezionare un servizio dall'ideazione alla scrittura, dalle immagini al montaggio video. Sono finiti, cari colleghi, e da un pezzo, i tempi in cui basta battere sulla tastiera.

La mentalità di questo tipo potrebbe dare uno scossone per il benedetto ricambio generazionale. Ma - ovviamente - fare i San Tommaso non è un lusso, in questo caso è un dovere assoluto.

Anche perché, abbattere i costi di produzione va bene, ma abbattere i costi del giornalismo vivo (quei poveri esseri umani che producono e diffondono informazione) sarebbe un inutile, ennesimo massacro della categoria. Pedalare va bene, ma almeno una borraccia d'acqua per scalare le montagne ci vuole!

Agon Channel ha già fatto partire i casting per fiction e reality. Non proprio una tv alternativa, dunque (manco gli si chiede, in fondo si presenta come generalista).
Ma rimaniamo a quello che ci interessa. Dice Vinci: "Non c'è spazio per grandi redazioni e gente che realizza un servizio al giorno". 
Sacrosanto. Ma da lì a strizzare per pochi spicci giovani e meno giovani volenterosi giornalisti, il passo è breve.

sabato 14 giugno 2014

Gomorra finisce bene (la prima stagione) [SPOILER]

A volte si fa presto a gridare al capolavoro.
In Italia, poi, è ancora più facile, considerato il panorama desolante delle serie tv.
Eppure lanciarsi in lodi sperticate di Gomorra – La Serie è assolutamente doveroso: 12 episodi senza cali di tensione, senza sbavature. Compatti, emozionanti, sceneggiati e diretti magnificamente.

Il prodotto di Stefano Sollima, supervisionato dallo stesso Roberto Saviano, ha finalmente dimostrato (perchè, purtroppo, nel nostro Paese c'è sempre bisogno di dimostrare) che si può e si deve produrre fiction di altissima qualità senza ridursi a famiglie buoniste, nonni rincoglioniti, preti simpaticoni e bellocci/e inespressivi. Che il pubblico è pronto a premiare queste opere con ascolti altissimi. Che forse è sempre stato pronto, ma non gli è mai stato proposto un prodotto all'altezza dei concorrenti internazionali.

Adesso non ci sono più alibi. Certo, Gomorra – La Serie è stato uno sforzo titanico: quasi tre anni per pianificare, scrivere, trovare gli attori e girare la prima serie. Tutto nel nome di un verismo che è la vera formula magica del successo, dalla scelta di girare nei luoghi reali a quella di non romanzare troppo vicende e personaggi. Lo spettacolo c'è, eppure è tutto molto credibile. Certo, Shakespeare è dietro l'angolo, alcune soluzioni sono ovviamente tese a dare carisma ai protagonisti, ma il fatto che lo spettatore si ritrovi immerso in un universo dove tutti sono rappresentanti del male, senza vie di scampo o possibilità di identificarsi in un modello positivo qualunque, è importante e decisivo.

Tutti, in Gomorra, sono ammorbati da egocentrismo, ambizione, violenza, sopraffazione, rabbia, paranoia, assenza di scrupoli: nessun personaggio principale ne esce con un briciolo di dignità e di umanità. Persino chi, all'inizio, sembra essere il meno peggio si rivela essere il più spietato. Questo rende il telefilm un concentrato di tensione che cresce fino ad un finale orchestrato benissimo.

Una regia calibrata, una fotografia che cattura ed esalta ogni singolo dettaglio, un cast di volti sconosciuti perfettamente credibile e facce prese dalla strada di una bravura sorprendente. Tra queste ultime, il giovanissimo Danielino, ovvero Vincenzo, protagonista dei due episodi più emotivamente forti, che nella vita vera ha lasciato la scuola e poi è stato arrestato. Cose che alimentano polemiche, forse, ma che in quei luoghi sono all'ordine del giorno e confermano, se vogliamo, la necessità di mostrare certe aberrazioni che quotidianamente accadono sotto il cielo di Napoli (e non solo).

Dalla lotta per il potere agli agguati, dalle vendette alle estorsioni, dai figli indegni dei genitori ai giovani che non sanno cos'è il rispetto, dalle faide interne agli accordi trasversali per le scissioni. Non manca niente, in questa prima stagione di Gomorra, che si permette di terminare con un picco narrativo di una sparatoria durante una recita scolastica, un evento che altrove sarebbe potuto risultare esagerato ma che qui funziona perfettamente.


Adesso, col clan dei Savastano decimato dalla direzione impulsiva e inadeguata del figlio Gennaro (Genny!) - ferito gravemente ma non ucciso dal traditore Ciro di Marzio - e il ritorno dal capo don Pietro, sfuggito con un massacro al 41/bis, le cose si faranno ancora più serie. Il boss rivale, Salvatore Conte, avrà di fronte un avversario agonizzante ma non domo: e Ciro, che si è bruciato da entrambe le parti, che fine farà? Attendere sarà sfiancante, ma diamo piena fiducia al team di Gomorra per una seconda stagione all'altezza delle aspettative.

giovedì 29 maggio 2014

"Scusate, vi mostriamo immagini orribili perchè non si possono ignorare". Davvero?

La vecchia dinamica del "se non sarò io a farlo, sarà di certo qualcun altro, allora meglio che sia io!" colpisce ancora. 

"Ci scusiamo in anticipo, ma non si può ignorare" si legge su un post di Facebook dell'Huffington Post.

La notizia è quella di due cuginette di 14 e 15 anni, stuprate e uccise tramite impiccagione da un branco i uomini nel villaggio indiano di Katra. A non poter essere ignorate sono le foto scioccanti (tanto da dover provocare delle scuse in anticipo) dei due piccoli corpi appesi ad un albero.

Ma chi decide se si può ignorare o meno questo fatto? E soprattutto, chi decide se la notizia SENZA foto cruenta è più o meno "vendibile"?
Facendo un rapido giro in rete si nota che molti altri siti hanno riportato la notizia senza allegare la foto dei due corpi impiccati.

Immagine sicuramente fortissima, esplicativa, se si considera anche la presenza della folla che ha deciso di protestare contro le istituzioni locali. Folla che ha impedito la rimozione dei cadaveri, chiedendo che giustizia venisse fatta. Fino alla denuncia dei presunti colpevoli (di cui due sono poliziotti).

Il dubbio rimane: se le immagini forti sono riportate "per dovere di cronaca" (con la chiosa: beh, le hanno diffuse le più grandi agenzie fotografiche...) allora che senso ha scusarsi? Il dovere di cronaca non può essere una foglia di fico dietro la quale nascondere la volontà di arrivare prima degli altri o in modo più d'impatto.

Quello che alla fine del ragionamento mi chiedo è se ci sia davvero il bisogno di fare notare che non c'è necessità reale di mostrare il corpicino impiccato di una bambina o di un bambino per dare la notizia e giustificare la condanna di un crimine inammissibile a qualsiasi latitudine.

E, se ce n'è bisogno, significa che ancora una volta come esseri umani ci sentiamo obbligati a farci sbattere in faccia l'orrore per smuoverci dal torpore. Per quei trenta secondi della lettura di un articolo online.

lunedì 5 maggio 2014

GennyCuloPelù, le notizie che si mangiano le altre notizie (ma quali?)

Bikini provocateur (ci arriviamo tra poco)
“Cosa mi sto perdendo?”
Ecco, la domanda che mi pongo quando inizio a vedere per troppo tempo le stesse notizie - o non-notizie, a seconda del caso - sui media è più o meno questa.
Quando il martellamento acchiappa-clic (o share, o copie) inizia a battere su quei 3-4 tasti ripetuti per giorni, tra fatti, opinioni, repliche e controrepliche, “ironia della rete” (meravigliosa espressione ormai cult che prelude a utilissime gallerie di screenshot e meme rubati ovunque), finisce che mi sorge il dubbio che dietro a questo wall of sound si nasconda qualche altra nota.
Non che spesso gli argomenti su cui marcia la gioiosa macchina della grande informazione non siano fonte di riflessioni particolari: tipo la schizofrenia democratica relativa all'attacco di Piero Pelù al premier Matteo Renzi, che ha scoperto i nervi un po' poco elastici della sinistra sul diritto di critica e di provocazione da parte degli artisti.
Pieroooooooh, dai reality alla dura realtà.
O, passando a roba ben più grave, quanto accaduto durante la partita di calcio Fiorentina-Napoli, dove gli scontri, i feriti di cui uno gravissimo e il gioco subordinato ai diktat ultrà sono passati immediatamente in secondo piano rispetto alla prepotenza mediatica (in linea col personaggio) dell'ormai iconico Genny 'a carogna – che con quel nickname potrebbe essere messo tra Il Mastino e la Montagna del Trono di spade – capace di ispirare fin da subito, oltre ad accese discussioni, anche migliaia di parodie e pagine fan sui social. Rileggo questa frase e un brivido mi percorre la schiena, ma tant'è.
Paola Bacchiddu castigatissima (su Twitter)
C'è poi la vicenda del culo della responsabile della comunicazione della Lista Tsipras, Paola Bacchiddu (giornalista, co-fondatrice di Linkiesta). La storia è questa: le campagne mediatiche della lista elettorale, nonostante impegno e inventiva, non fanno breccia e la stampa non se ne occupa. Sicchè, quasi per disperazione, la Paola caccia fuori dal cilindro un gesto ironico di protesta. Pubblica su Facebook una foto delle vacanze dove a risaltare è il suo onestamente ragguardevole fisico, fasciato da un bikini bianco, e scrive: “Uso qualunque mezzo, votate Tsipras”. Apriti cielo.
Tutti i media, boccaloni, ci cascano. Iniziamo la galleria degli orrori.
  • Provocazione”: vabbè, la posa della Bacchiddu non è delle più istituzionali, ma da quando un bikini è considerato provocatorio? Tra l'altro nello status che accompagna la foto non c'è neppure alcune accusa “provocatoria” (se vogliamo cercare anche un altro senso all'espressione) ma semplice ironia.
  • D'altra parte va registrato che questa trovata estemporanea, che ha avuto mediaticamente molto più successo di qualsiasi altra iniziativa studiata e meditata, suona quasi come un'abdicazione al ruolo di comunicatore. Dare alla gente quello che la gente vuole? Cercare la scorciatoia del facilona del “purchè se ne parli”? Sì, ma di cosa si parla: di Tsipras, dei suoi programmi, della sua lista? No. Si parla del culo di una che lavora per lui. Qualcuno andrà a cercarsi informazioni ulteriori sulla lista Tsipras? Non credo, magari qualcuno chiederà l'amicizia alla Bacchiddu su FB o si metterà a fare il lurker sul suo profilo a caccia di altre foto provocanti.
  • I media ci passano come i soliti boccaloni che si fotocopiano contenuti, senza neppure articolare troppo la questione, lasciando ai commentatori, sui loro blog ospiti delle varie testate, il compito di discettare sulle implicazioni di questa o quella reazione (anche lì, solita zuppa: bacchettoni vs. creativi con le varie sfumature).
Genny va come ciliegina sulla torta. Ciao.
Sipario, fino al prossimo fenomeno di costume, litigio o personaggio equivoco, ormai un appuntamento che si verifica con frequenza piuttosto allarmante.

Ah, per chi si ricordasse la domanda iniziale: forse, accecati e rintronati dalla virulenza del concerto di Genny & culi, ci stiamo perdendo per strada informazioni su come stia procedendo il dibattito sul lavoro, sui beneamati 80 euro per 11 milioni di italiani e le perplessità dell'Unione europea sulla ripresa economica del nostro Paese, con i dati dell'Istat per nulla confortanti anche in vista del prossimo anno... 

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giovedì 27 marzo 2014

Perchè un giornalista non deve essere un commerciante di notizie

Avete notato che sempre più spesso gli articoli delle testate giornalistiche online sembrano essere gli stessi? Cavolo, io non sto proprio fisso davanti al pc, ma a volte vedo nel giro di un giorno cinque-sei testate, e sono quelle maggiori, spiattellare la stessa identica notizia con un taglio leggermente differente, con titoli che cercano disperatamente la keyword giusta, e spesso con immagini d'anteprima uguali. Sono quasi impazzito per evitare di vedere ovunque quel dannato First Kiss, tanto per citare una “notizia” (virgolette d'obbligo) recente e conosciuta.
Poi leggo un interessantissimo articolo de Linkiesta sul fenomeno del picking (quello appena esemplificato) e, subito dopo, un pezzo su Internazionale che mi ha fatto accapponare la pelle.
Il primo, di Andrea Coccia, si chiede se giustamente non sia il caso di fermarsi in tempo e tornare a fare del
giornalismo genuino e non schiavo dei numeri e delle condivisioni; il secondo, di rimando, ha l'eloquente titolo di “
Quando il giornalista viene pagato per il traffico che produce”, e presenta esempi di come alcune testate straniere (l'indagine originale è del NY Times) si orientino a pagare i collaboratori in base ai “numeri” che producono, ovvero clic e contatti.
In pratica, i giornalisti come PR della notizia (qualsiasi), come spacciatori di roba “meglio tagliata” o forse solo tagliata più in fretta per battere altri sul tempo. O ancora, chi ha più follower e/o una rete forte e numerosa di conoscenze virtuali può battere chi scrive meglio o produce notizie migliori. Contano solo i numeri.
Se questa prassi può passare per notizie flash e breaking news, soprattutto se settoriali (finanza, marketing, politica, cronaca) dove va a finire l'essenziale e peculiare approfondimento? Perchè ormai una breve e sintetica “notizia”, che racconta un fatto, la sanno fare anche i computer (è recente l'esperimento sugli aggiornamenti sui terremoti). Ma la variabile, importantissima, dell'originalità e della creatività, dell'analisi e dello scavo in profondità? Del punto di vista unico, umano, e argomentato della persona che scrive?
I giornalisti non sono molto bravi con i numeri”, si legge nell'articolo che m'ha inquietato. No, con quei numeri non DEVONO esserlo. I numeri sono ingannatori. Soprattutto quelli che vengono sbandierati per far propaganda alla propria attività online. Il clic è un freddo dato numerico, non è garanzia né di ritorno economico – ormai ossessione imperante - né tantomeno di qualità dell'informazione.
Secondo questo ragionamento, tutto ciò che fa clic e ascolti sarebbe giusto, legittimo e dignitoso.
Se i giornalisti stessi, per rincorrere quei numeri che nel giro di poco tempo inizieranno a contare sempre meno, producono notizie che non hanno alcun valore reale ed anzi difficilmente posso essere definite “notizie”, come potremo più stabilire un criterio di credibilità?
In questo modo non si potrà più accettare nemmeno una critica al modo di fare giornalismo di – per dirne uno – Studio Aperto: un tg che, ragionando in questo modo, non fa altro che dare a un certo pubblico quello che vuole, in relazione agli ascolti (se non funzionasse, cambierebbe radicalmente). Quindi dove voglio arrivare? Ad affermare che quella dei numeri e del dare al pubblico quello che piace è una palese giustificazione e non regge, ovvio.
Ascoltare i propri lettori/utenti non significa utilizzarli come un mercato e di riflesso mercificare la notizia. O credete che i post di Repubblica.it su gattini, gossip e fotomontaggi abbiano giovato all'autorevolezza e all'immagine della testata? Davvero, fermandosi a riflettere un momento, si preferisce barattare il rigore e la credibilità per qualche migliaio di clic e commenti perlopiù negativi e sarcastici? Riprodurre contenuti identici ad altri siti è una politica giornalistica accettabile?
Perchè deve esserci differenza tra un blog qualsiasi e una testata giornalistica. Perchè, con i tempi che cambiano a velocità supersonica, chi svolge questa professione deve trovare davvero qualcosa di utile da dire, da raccontare, da approfondire.
L'originalità paga. Crea qualcosa. Di sicuro non si potrà più fare a meno del rilancio delle tante notizie che arrivano da fonti autorevoli dalle quali in moltissimi attingono.
Ma il lavoro del giornalista dovrebbe essere quello di rendere ogni notizia capace di “dare” qualcosa in più al proprio pubblico. Un copia e incolla e mischia è ingeneroso e deleterio per la categoria e la professione.
Purtroppo quella cosa chiamata “etica”, che negli svariati ambiti della vita chiamiamo “coscienza” (solitamente incitando gli altri ad averla) non si può inventare e distorcere come preferiamo.
L'etica di un giornalista è forse al giorno d'oggi l'unica cosa che rimane a chi vuole davvero fare questa professione credendoci un minimo.

Quasi certamente continua...

martedì 25 marzo 2014

Siamo operai o minion? La Fiat e il balletto di Happy che fa tanto incazzare

Premessa: i video-spoof di Happy di Pharrell hanno già ampiamente scassato i cosiddetti a partire dal giorno dell'arrivo online del video originale, creato apposta per essere, con la solita lungimirante strategia di marketing virale, replicato e ricreato a ogni latitudine del globo.
Con grande solerzia e poca inventiva, un po' chiunque ha cercato di cavalcare il fenomeno per i motivi più disparati (divertimento, autopromozione, vanità, pubblicità...) e quindi, tanto per non farsi mancare nulla, la FIAT ha reso gli operai dello stabilimento di Melfi protagonisti di un WE ARE HAPPY! video che, come al solito non appena di parla di 1. FIAT 2. operai 3. FIAT+operai, ha mandato in fibrillazione il giornalismo, il sindacalismo e l'opinione pubblica italiani.
Per cosa, poi? Per poco più di un minuto e mezzo di video girato e montato con la mano sinistra (che rende il tutto un po' più amateur-familiare) dove alcuni operai, alternati a qualche dirigente e segretaria, si divertono un po' a muoversi sulla base dell'ormai insopportabile tormentone felicemente felice di Cattivissimo me.
Ecco: questi operai della FIAT sono forse come i Minion, assistenti beoti-devoti al padrone?
Per carità. Non facciamo delle letture cattive e maligne.
Lasciamo alla Fiom le incazzature. In giro si leggono dei commenti assurdi.
Atteniamoci al video: ormai c'è, è online, fa discutere e si becca un bel po' di visite, dobbiamo farci i conti. Non è un filmato da Istituto Luce, chi lo dice è in malafede. C'è ancora chi ha lavoro, e un video non sminuisce il dramma della disoccupazione, della cassa integrazione, delle famiglie senza soldi e delle puttanate della famiglia Agnelli.
Ma vi indignavate forse per Jennifer Beals che saldava vestita da stracciona e poi si scatenava sul dancefloor? Provavate compassione per John Travolta nel suo scassato negozio di vernici prima che arrivasse il sabato sera?
No. E a questi operai il ballo non è neppure terreno di riscatto sociale e affermazione artistica. Se questi "fortunati" hanno voglia di ballare un minuto in catena di montaggio per dare l'idea che lì dentro non proprio tutto faccia schifo, lasciate fare.
Le vere battaglie si combattono altrove, andiamo lì a sprecare energie.
Google
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