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mercoledì 9 luglio 2014

Il giornalismo è vivo (ma rischia la zombificazione)

Inizio da una riflessione interessante proposta da TagliaBlog, che torna sul tema della caduta libera della qualità del giornalismo online.

È vero, ormai ogni giorno le notizie che ci saltano addosso e ci aggrediscono online sembrano essere praticamente soltanto quelle più strampalate. In pratica non c'è una via di mezzo: si passa dallo stile “cronaca vera” (animali, gente impazzita, malattie assurde) alla cronaca nera affrontata in modo morboso e superficiale.

I danni per l'autorevolezza del giornalismo (inteso come professione) sono incalcolabili.
Ma la (triste) realtà è che il pessimo giornalismo è sempre esistito, esiste e sempre esisterà. È un sistema contro il quale bisogna battersi. E ci si batte sia facendo buona informazione, da professionisti, sia chiedendo che l'informazione sia utile e onesta, da lettori.

Certo, se tutti – anche le grandi e storiche testate - si piegano al più bieco link/like/click baiting sembra non esserci speranza.
Eppure a ben guardare sono pochi gli articoli-fuffa. I giornali online propongono moltissimi articoli, di tante e diverse tipologie (penso alla sanità, l'economia, la tecnologia): però, ad avere risalto sono sempre quei pochi pezzi che possono garantire un “gancio” che porti più traffico possibile sul sito.

Diciamoci la verità: le testate giornalistiche hanno acquisito le brutte abitudini che appartengono al peggior marketing.
Scrittura frettolosa, propaganda facilona, autoreferenzialità, “prostituzione” a fine di vantaggi/contatti/visite/sponsor... però sono cose che esistono dall'alba dei tempi.
D'altro canto, non si può rimproverare alla stampa di cercare di acchiappare lettori facendo del sensazionalismo o dei titoli d'impatto. Succedeva con gli strilloni nelle strade alla fine del'Ottocento, succede anche adesso. Bisogna però considerare che esistono diverse tipologie di lettori, da quello attento e preparato a quello che (soprattutto online) cerca uno spin-off dalla sua routine. Anche il giornalismo punta a dove tira il mercato.
Se poi da lì si arriva ad altri argomenti, soprattutto se più interessanti e intelligenti, tanto meglio.

Non si può però non collegare il cambiamento radicale del modo di fare e proporre giornalismo all'ascesa e all'importanza dei blog, un evento che ha rivoluzionato la storia.
Non sempre è tutto oro quello che luccica, e i blogger più scafati e integerrimi lo sanno bene: spesso dietro ad alcuni blog (e penso soprattutto a quelli che in USA hanno finito per sovrastare alcuni canali ufficiali) ci sono individui che scambiano e spacciano le proprie opinioni per notizie verificate e le proprie tesi come verità rivelate. L'industria delle notizie si è accorta di questo fenomeno e ha tentato – e tenta tutt'ora, anche da noi - di appropriarsene declinandolo in vari modi.

Nel migliore dei casi, assoldando il blogger autorevole per creare contenuti autorevoli, nel peggiore reclutando blogger-scimmie e pagandoli per il volume di traffico internet generato (sempre che si parli di soldi, perché ad alcune scimmie va bene anche la gratuità). La colpa è di chi offre questo tipo di lavoro o di chi lo accetta?

Attenzione, qui non si vogliono attribuire con leggerezza delle responsabilità. Una domanda, però, dobbiamo farcela. Il “peccato originale” è di chi produce giornalismo (/comunicazione) spazzatura o di chi ne usufruisce, quasi sempre consapevolmente?

Non dobbiamo infatti dimenticare un punto fondamentale: non è merito o demerito dei giornalisti, nè tantomeno dei blogger, se gran parte dell'utenza di internet preferisce i gattini nelle scatole alle notizie di economia, o se viene attirata dal titolo idiota (“Bambina schiaffeggia madre con un fetta di pizza e le salva la vita”) invece che dal titolo o dall'articolo confezionato con competenza, onestà e professionalità.

E' un problema più complesso e articolato, una questione che – probabilmente – dovrebbe far riflettere sulla nostra stessa società (e l'umanità intera), o rivedere le proprie strumentali fantasie “sull'internet libera tutti”, motore di cultura, progresso, innovazione.

In sostanza, per parafrasare un inflazionato modello di tautologie che risponde al nome di Forrest Gump, morto è chi il morto fa.
Ma non parlerei esattamente di morti: piuttosto di zombi, che diffondono un morbo.
L'immagine forse è un po' forte, ma beh, il problema è serio!
Sono zombi i giornalisti che inseguono il titolo acchiappa-clic e il giornalismo con contenuti acchiappa-clic.
La qualità costa fatica. Tempo. Sudore. Frustrazione (i risultati si vedono sul lungo termine, si sa).
Fare del giornalismo utile e corretto paga. Così come del blogging sano e rispettoso.
Ben vengano le riflessioni, gli spunti critici, le polemiche, le provocazioni.


Anche se la vera rivoluzione avverrebbe se gattini nei vasi, squali ballerini, starlette malvestite e malattie assurde non fossero gli argomenti costantemente in testa nelle classifiche dei post più cliccati, sempre e comunque...

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giovedì 27 marzo 2014

Perchè un giornalista non deve essere un commerciante di notizie

Avete notato che sempre più spesso gli articoli delle testate giornalistiche online sembrano essere gli stessi? Cavolo, io non sto proprio fisso davanti al pc, ma a volte vedo nel giro di un giorno cinque-sei testate, e sono quelle maggiori, spiattellare la stessa identica notizia con un taglio leggermente differente, con titoli che cercano disperatamente la keyword giusta, e spesso con immagini d'anteprima uguali. Sono quasi impazzito per evitare di vedere ovunque quel dannato First Kiss, tanto per citare una “notizia” (virgolette d'obbligo) recente e conosciuta.
Poi leggo un interessantissimo articolo de Linkiesta sul fenomeno del picking (quello appena esemplificato) e, subito dopo, un pezzo su Internazionale che mi ha fatto accapponare la pelle.
Il primo, di Andrea Coccia, si chiede se giustamente non sia il caso di fermarsi in tempo e tornare a fare del
giornalismo genuino e non schiavo dei numeri e delle condivisioni; il secondo, di rimando, ha l'eloquente titolo di “
Quando il giornalista viene pagato per il traffico che produce”, e presenta esempi di come alcune testate straniere (l'indagine originale è del NY Times) si orientino a pagare i collaboratori in base ai “numeri” che producono, ovvero clic e contatti.
In pratica, i giornalisti come PR della notizia (qualsiasi), come spacciatori di roba “meglio tagliata” o forse solo tagliata più in fretta per battere altri sul tempo. O ancora, chi ha più follower e/o una rete forte e numerosa di conoscenze virtuali può battere chi scrive meglio o produce notizie migliori. Contano solo i numeri.
Se questa prassi può passare per notizie flash e breaking news, soprattutto se settoriali (finanza, marketing, politica, cronaca) dove va a finire l'essenziale e peculiare approfondimento? Perchè ormai una breve e sintetica “notizia”, che racconta un fatto, la sanno fare anche i computer (è recente l'esperimento sugli aggiornamenti sui terremoti). Ma la variabile, importantissima, dell'originalità e della creatività, dell'analisi e dello scavo in profondità? Del punto di vista unico, umano, e argomentato della persona che scrive?
I giornalisti non sono molto bravi con i numeri”, si legge nell'articolo che m'ha inquietato. No, con quei numeri non DEVONO esserlo. I numeri sono ingannatori. Soprattutto quelli che vengono sbandierati per far propaganda alla propria attività online. Il clic è un freddo dato numerico, non è garanzia né di ritorno economico – ormai ossessione imperante - né tantomeno di qualità dell'informazione.
Secondo questo ragionamento, tutto ciò che fa clic e ascolti sarebbe giusto, legittimo e dignitoso.
Se i giornalisti stessi, per rincorrere quei numeri che nel giro di poco tempo inizieranno a contare sempre meno, producono notizie che non hanno alcun valore reale ed anzi difficilmente posso essere definite “notizie”, come potremo più stabilire un criterio di credibilità?
In questo modo non si potrà più accettare nemmeno una critica al modo di fare giornalismo di – per dirne uno – Studio Aperto: un tg che, ragionando in questo modo, non fa altro che dare a un certo pubblico quello che vuole, in relazione agli ascolti (se non funzionasse, cambierebbe radicalmente). Quindi dove voglio arrivare? Ad affermare che quella dei numeri e del dare al pubblico quello che piace è una palese giustificazione e non regge, ovvio.
Ascoltare i propri lettori/utenti non significa utilizzarli come un mercato e di riflesso mercificare la notizia. O credete che i post di Repubblica.it su gattini, gossip e fotomontaggi abbiano giovato all'autorevolezza e all'immagine della testata? Davvero, fermandosi a riflettere un momento, si preferisce barattare il rigore e la credibilità per qualche migliaio di clic e commenti perlopiù negativi e sarcastici? Riprodurre contenuti identici ad altri siti è una politica giornalistica accettabile?
Perchè deve esserci differenza tra un blog qualsiasi e una testata giornalistica. Perchè, con i tempi che cambiano a velocità supersonica, chi svolge questa professione deve trovare davvero qualcosa di utile da dire, da raccontare, da approfondire.
L'originalità paga. Crea qualcosa. Di sicuro non si potrà più fare a meno del rilancio delle tante notizie che arrivano da fonti autorevoli dalle quali in moltissimi attingono.
Ma il lavoro del giornalista dovrebbe essere quello di rendere ogni notizia capace di “dare” qualcosa in più al proprio pubblico. Un copia e incolla e mischia è ingeneroso e deleterio per la categoria e la professione.
Purtroppo quella cosa chiamata “etica”, che negli svariati ambiti della vita chiamiamo “coscienza” (solitamente incitando gli altri ad averla) non si può inventare e distorcere come preferiamo.
L'etica di un giornalista è forse al giorno d'oggi l'unica cosa che rimane a chi vuole davvero fare questa professione credendoci un minimo.

Quasi certamente continua...
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