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domenica 23 marzo 2014

The Immigrant, ovvero: perchè James Gray è davvero grande

Se parlo di James Gray è perchè The Immigrant (da noi C'era una volta a New York, quindi lo chiamerò sempre The Immigrant), è l'opera che tanti fan di questo autore hanno digerito maluccio.
Recap: Gray, newyorkese di origini ebreo-russe, è il regista perfetto per avere dei fan cinefilo-autorevoli perchè artista di nicchia, riluttante al lavoro con le major e comunque sempre rigoroso, intellettuale ed intelligente. Quindi capirete perchè, essendo davvero uno dei migliori in circolazione senza avere un giro grosso di sponsor che urlano come scimmie, può contare anche su fan intransigenti che stanno più o meno dentro il senso delle sue opere.

Gangster, noir, poliziesco, sentimento dostoevskijano: questi finora i generi esplorati in vent'anni di onorata e onorabile carriera da questo ex-ragazzo prodigio che ha esordito a 25 anni, nel 1994, con il superbo Little Odessa che vedeva nel cast gente tipo Tim Roth e Vanessa Redgrave.

Cosa rende i film di James Gray tanto speciali? Semplice: la scrittura che riesce a dare alle opere un grande respiro letterario e drammatico, nell'accezione migliore e cinematografica del termine, e una controllatissima messa in scena, quasi geometrica e mai fredda, che denota un maturo e onesto sguardo d'autore e affascina senza mai apparire compiaciuta.
Poi arriva il recentissimo The Immigrant, che, come detto, rischia di mandare in crisi il sistema.

Primo, per l'apparenza quasi-kolossal che rinuncia ad una consueta cornice frugale e spartana. In realtà, Gray massimizza un budget per niente faraonico per un film in costume sugli anni '20 (poco più di 15 milioni di dollari, fate voi i debiti raffronti).
Secondo, per il temutissimo confronto autoriale con il genere melodramma: terreno impervio per moltissimi, alcuni dei quali ci hanno fatto degli scivoloni mica da ridere, è stato visto dai più alla vigilia come un segnale di rammollimento. Stupide paure preventive, perchè The Immigrant è Gray al 100% con la sua poetica declinata in un'altra dimensione.
Terzo, qualcuno si è “lamentato” del suo eleggere per la prima volta un personaggio femminile a protagonista assoluto del film. Niente di preoccupante, anzi, era l'ora. Senza contare che in Two Lovers c'erano già i segnali di un prossimo film compiuto su una figura di donna complessa, dopo i tanti uomini fragili e tormentati.
Ma basta così. The Immigrant è un grande film.

Marion Cotillard è chiamata ad una intensa e per nulla semplice interpretazione di Ewa, immigrata polacca nell'America del 1921, dove la speranza di una vita migliore s'infrange contro la necessità di sopravvivenza.
Non è la storia in sé che interessa a Gray, tant'è vero che da subito setta i presupposti per giustificare tutto quello che succederà, per poi procedere con l'esplosione dei rapporti umani: Ewa viene separata dalla sorella, messa in quarantena ad Ellis Island, e da lì parte la sua battaglia contro il mondo per ricongiungersi a lei. Sorella che, esattamente come Ewa, non rivedremo più fino alla fine ma evocata ad ogni piè sospinto.

C'è poi la figura di Bruno, il solito maiuscolo Joaquin Phoenix, personaggio che cresce con l'andare dei minuti fino ad un finale che è pura potenza emotiva. Marchio di fabbrica di Gray, senza per questo risultare ripetitivo o scontato, il personaggio dell'elegante e irruento pappone truffatore con la coscienza e il cuore in tumulto è il perfetto essere umano in cui all'autore piace affondare penna e macchina da presa come un bisturi.
Ewa è una donna in balia degli eventi ma al tempo stesso indomabile, quasi sprezzante del suo stesso destino e pur contraddittoria: il suo carattere e la sua volontà si scontrano con quello che è costretta a vivere pur di ottenere quello che vuole (la libertà e sua sorella), ma spesso la espongono anche al rischio di perdere tutto nel tentativo. Orgoglio, ma anche dignità, che Gray mette in scena attraverso gli sguardi e le parole secche della Cotillard.

Qui più che altrove il tema ricorrente nell'autore della religione prende corpo in modo prepotente: Ewa è credente, è costretta a degradarsi e sentirsi condannata, eppure è attraverso una confessione personale che segretamente mette in moto gli eventi che portano al finale. Bruno, già minato nell'animo, è costretto a prendere coscienza e vedere lo squallore della propria condizione, attraverso un amore più profano, certo, ma con un senso di colpa che lo porta ad una sorta di martirio autoinflitto.

E poi c'è Orlando-Jeremy Renner, l'illusionista romantico ma amante del gioco d'azzardo, gentile e di talento ma troppo “salvifico” per essere vero. Incredibile la sfida di Gray alla didascalia nella sua prima apparizione; prima levita come un crocifisso e poi... sconfigge la morte. Personaggio di difficile gestione, da alcuni percepito come semplicistico e superfluo, eppure perfetto per dare quel senso di quasi impercettibile speranza nel deus-ex-machina che deve essere negata dal destino. Senza contare che smaschera le contraddizioni e la precarietà intima di Bruno, chiamato a vivere davvero il suo conflitto invece di limitarsi a recitare e dare ordini a delle ragazze. Con esiti, come si vedranno, tragici.

Una grande storia che travalica i suoi stessi difetti e alcune leggerezze in sede di messa in scena, per un film che sa stregare e avvolgere grazie alla natura dei suoi personaggi e delle loro contraddizioni.

James, non farci aspettare troppo per il prossimo lavoro...

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