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sabato 22 febbraio 2014

12 anni schiavo: Happiness is a warm whip

Qual è il modo giusto di approcciarsi ad una pellicola come 12 anni schiavo?
Miliardi di recensioni (e/o status, tweet etc.) tutte uguali utilizzano la dicitura ‘pugno nello stomaco’: che fantasia
Solomon dice: "BASTA CON 'STI PUGNI NELLO STOMACO!"
Sono anni ormai che l’asticella del rappresentabile, anche nei film “da Oscar” e/o di larghissimo consumo, si è alzata. Non dovrebbe sorprendere la rappresentazione di sofferenze inflitte tramite sanguinolente pratiche sadiche in un film dove si affronta un periodo dove venivano inflitte punizioni tramite pratiche sadiche
E non venite a dire che tutti i film potenzialmente sono di largo consumo, perchè solo pochissimi arrivano per le più svariate ragioni al pubblico mondiale, e ancor meno a premi importanti.

Quindi, per favore, non recitiamo noi spettatori la parte della sciura borghesuccia di mezza età che scopre la schiavitù americana dell’Ottocento e gli orrori della violenza e dell’omicidio disumano assistendo a qualche esecuzione e tortura assortite, a base di fruste e impiccagioni. Perché il passo, dal buonismo stantio all’ipocrisia molesta, è breve. Se per voi è un pugno nello stomaco quello che si vede in 12 anni schiavo (e indubbiamente, comunque, è ben rappresentato), allora non aprite mai un libro di storia dedicato approfonditamente alle condizioni di vita degli schiavi neri d’America, casomai non vi venisse un infarto.

"Farfallina..." (ma Fassbender non capisce)
Parliamo di cinema, e non facciamola lunga: la storia è reale, basata sulle memorie del vero Solomon Northup, cittadino di colore nato libero nello stato di New York e violinista nell’America schiavista di metà Ottocento: tradito da due loschi figuri, sarà separato dalla famiglia e venduto come bestia da soma a proprietari terrieri del sud. Storia portata in scena con competenza: Steve McQueen è regista purosangue e sa benissimo come affrontare i momenti patetici, quelli violenti, quelli lirici senza mai eccedere. Difficile trovare una scelta registica fuori posto o un qualcosa di stucchevole e tirato per le lunghe. In questo 12 anni schiavo riesce a coniugare benissimo un’autorialità mai compiaciuta con le esigenze da spettacolo hollywoodiano, senza mai cadere nell’affresco inerte o indifferente di un Ron Howard a caso. 

Come direttore d’attori, McQueen sa dare spazio ad interpretazioni mai sopra la soglia del tollerabile, anche nella loro eccessività (e mi riferisco in particolare al feticcio Fassbender, che ruba in ogni occasione la scena con il suo scatenato schiavista laido, viscido e perfettamente a posto con la coscienza). Il miracolo della pellicola è di certo la Patsey di Lupita Nyong'o, un personaggio che, indipendentemente dall’attrice, ha una portata drammatica talmente forte scaturita dalla penna di John Ridley (il quale adatta l'autobiografia di Northup) che porta in modo automatico a glorificare anche l’interprete. Non fraintendetemi: un’attrice con un milligrammo in meno dell’intensità di Lupita avrebbe mandato le cose a monte. Ma quello di Patsey è il tipo di character che la sceneggiatura, in partenza, tratteggia come oggetto della totale pietas e dell’empatia dello spettatore. Non c’è nulla di male ad ammetterlo e a lasciarsi soggiogare da questo metodo di lavoro, che peraltro funziona splendidamente.

Eccolo, il Lincoln-wannabe "risolvo-tutto-io"
Ma è, ad esempio, stucchevole la comparsata di Brad Pitt nel ruolo, piatto e inerte, del buon cittadino homo faber giramondo di larghe vedute, che sarà il deus ex machina attraverso il quale, dopo una ‘semplice’ discussione, Solomon riacquisterà la sospirata libertà dopo i 12 anni del titolo. Ecco, Pitt è la quint’essenza della star generosamente prepotente in ruolo inutile (Ehi! L’ho prodotto! È merito mio! Ci sono anch’io!) che certifica la straniante presenza di attori noti che non hanno ruoli ma dei cameo, che – anche per la natura abbastanza archetipica per non dire schematica dei personaggi affidati – non brillano affatto, anzi rappresentano un inciampo, quasi una zavorra al naturale scorrere del film. Ciao Paul Giamatti, ciao Paul Dano.

Se ricevi più complimenti di me, t'ammazzo!
Infine, nota di merito al protagonista Chiwetel Eijofor che rischia di essere il meno celebrato, pur portando il peso di tutta la pellicola sulle spalle: grande presenza scenica, interpretazione calibrata e mai patetica, perfetta nel rispecchiare il carattere e la volontà del suo personaggio attraverso gesti, sguardi e toni di voce, anche negli aspetti più umanamente individualisti.

In definitiva, 12 anni schiavo è un film da vedere, ben al di sopra della retorica a cui spesso certa tipologia di cinema ci ha abituati. Non è certamente l’opera migliore di McQueen, tutt’altro, ma un’ottima prova di personalità che non si lascia imbrigliare. Sul valore assoluto della pellicola come dramma in costume, forse, qualche perplessità è legittima, ma è uno spettacolo che vale il biglietto.

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