Nel
mare sempre più vasto del'inutilità critica delle opere d'arte
(siano ormai dipinte, scritte, filmate o performate live) ci si
imbatte ancora, alle volte, in giudizi che fanno cadere le breccia.
Hai
voglia a chiamarle opinioni,
parola di solito anticipata o seguita dall'assolutorio aggettivo
“leggittime”, per far finta di niente: sono giudizi che restano e
impongono una riflessione.
Si
tratta del classico errore che spesso, da semplici e avvantaggiati
fruitori finali, commettiamo con leggerezza: dire “sarebbe stato
meglio se...” o simili, mettendo al proprio posto la lettura
soggettiva rispetto a quelli che sono gli intenti di chi ha
realizzato l'opera in questione.
Il
Capitale Umano, di Paolo Virzì, film anomalo nel panorama nazionale
in quanto thriller-commedia di costume, racconta un'umanità molto
riconoscibile e inizia con la morte di un 'povero' cameriere,
investito da un SUV mentre con la sua bicicletta torna a casa dopo il
lavoro.
Non
lo rivedremo più, se non come comparsa in qualche flashback e sotto
forma di notizia nel tg locale. Non è la sua storia che viene
raccontata. E' una vittima degli eventi, è colui che, crudelmente,
renderà chiaro il titolo del film.
E
poi salta fuori qualcuno che rimprovera, anzi, spiega che la
pellicola non emoziona perchè non indaga sulla vita della
disgraziata vittima e sul dolore della famiglia.
Ancora
una volta dobbiamo sentirci dire che c'è bisogno che la sofferenza
ti venga sbattuta in faccia per renderla reale, per coinvolgere
emotivamente lo spettatore, già di per sé passivo e stracarico di
esperienze di racconti di fatalità e di lutti spettacolarizzati.
Adesso,
non che Virzì abbia bisogno di una difesa da parte mia, ma se il
povero cameriere investito e lasciato agonizzante non è
“approfondito” come figura, un motivo ci sarà.
E',
anzi, una scelta programmatica fortissima: lascia da parte il motore
della vicenda, lo fa aleggiare come uno spettro per tutta la durata,
nega il triviale spettacolo del dolore, che già sperimentiamo
quotidianamente in televisione, per concentrarsi sulla meschinità
della gente che gli ruota attorno, inconsapevole, indifferente, e poi
impotente e (spesso) vigliacca.
Se
qualche spettatore, e qualche sedicente critico, non ha la capacità
di vedere oltre quello che viene mostrato, il problema è soltanto
suo.
Il
Capitale Umano è un film riuscito, compiuto, anche nelle sue
imperfezioni: piaccia o meno, parla del nostro Paese meglio di mille
altre opere recenti. A meno che non si vogliano considerare le
commedie trash specchio culturale contemporaneo (che allora,
probabilmente, parlano bene anche quelle). Anche quando semplifica,
tratteggia, abbozza - vedi il consiglio d'amministrazione del teatro
che non si farà - Virzì racconta bene la rozza semplicità di alcuni
caratteri realmente esistenti.
Un
film, non per niente, ispirato ad un romanzo americano e molto
“americano” nello svolgimento e negli assunti. Solo che gli
americani lo avrebbero fatto senza il bisogno di soldi pubblici.
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