Gesto sportivo! |
Che dei calciatori si affidino ad un’agenzia di marketing per ideare una campagna mirata a promuovere l'antirazzismo non mi pare niente di eclatante. Anzi, mi pare un iter discretamente intelligente e professionale.
Così come poco sorprendente è scoprire, poche ore dopo un gesto percepito come spontaneo e il relativo battage pubblicitario – perché il mondo dell’informazione è ormai veicolo della pubblicità di notizie che a loro volta sono spot, ricordate la non-notizia del video First Kiss? – che il gesto del calciatore del Barcellona Dani Alves è stato il risultato di uno studio di marketing.
Da sempre warholiana, 10 e lode. |
Breve recap: Dani Alves, bersagliato dalla sciocca tradizione dei tifosi razzisti del lancio di banane in campo, ne prende una e se la mangia prima di tornare a giocare. Poco dopo si diffonde in rete l’hashtag #somostodosmacacos, da noi #siamotuttiscimmie, e via di foto e selfie con persone da ogni angolo del globo trasformate in grandi mangiatori di banane (Presidenti del Consiglo, sportivi, tua sorella, tuo zio, tua nonna, eccetera).
Intento nobile - gesto simbolico contro il razzismo, più forte di miliardi di parole - o privato che sia - Alves e Neymar volevano qualcosa di geniale per sfottere a loro volte i cori razzisti che ricevono durante le partite – missione compiuta.
Foto a caso di gente a caso. |
Dal punto di vista meramente comunicativo, l’idea è stata un successo, testimoniato da milioni di articoli sulla stampa, status, condivisioni, selfie.
Dal punto di vista sociale il “fenomeno” che dura qualche giorno bruciando come trend topic e argomento virale è abbastanza impalpabile.
Oltre ad essere per certi versi insopportabile: sfido chiunque a vedersi la bacheca invasa da amici, conoscenti e vip che s’addentano delle banane senza spazientirsi dopo poche “fotocopie”. Va bene, siamo tutti d’accordo che il razzismo è il male e va estirpato con ironia e cultura, ma che mi frega della tua faccia in primo piano che s’addenta il frutto dell’amor?
Anche lui s'è fatto un selfie. |
Senza contare tutti quei personaggi che sfruttano in modo malizioso l’ennesima, fugace moda del momento per ritagliarsi un attimo di notorietà e autopromozione.
Siamo sempre lì, alla trasformazione dell’intento “nobile” in pubblicità e, nella sua deriva finale, in una vetrina su quanto noi siamo buoni e sensibili.
Dopo questo slancio umanitario che dura lo spazio di un selfie, che succede?
Archiviato il proverbiale quarto d’ora dove “siamo tutti scimmie” si torna ad essere degli homo più o meno sapiens, più o meno sottilmente e inconsapevolmente razzisti, presumo.
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