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mercoledì 30 aprile 2014

Ma che selfie fai se la banana non ce l’hai? Marketing dell’antirazzismo

Gesto sportivo!
Che dei calciatori si affidino ad un’agenzia di marketing per ideare una campagna mirata a promuovere l'antirazzismo non mi pare niente di eclatante. Anzi, mi pare un iter discretamente intelligente e professionale.
Così come poco sorprendente è scoprire, poche ore dopo un gesto percepito come spontaneo e il relativo battage pubblicitario – perché il mondo dell’informazione è ormai veicolo della pubblicità di notizie che a loro volta sono spot, ricordate la non-notizia del video First Kiss? – che il gesto del calciatore del Barcellona Dani Alves è stato il risultato di uno studio di marketing.
Da sempre warholiana, 10 e lode.
Breve recap: Dani Alves, bersagliato dalla sciocca tradizione dei tifosi razzisti del lancio di banane in campo, ne prende una e se la mangia prima di tornare a giocare. Poco dopo si diffonde in rete l’hashtag #somostodosmacacos, da noi #siamotuttiscimmie, e via di foto e selfie con persone da ogni angolo del globo trasformate in grandi mangiatori di banane (Presidenti del Consiglo, sportivi, tua sorella, tuo zio, tua nonna, eccetera).
Intento nobile - gesto simbolico contro il razzismo, più forte di miliardi di parole - o privato che sia - Alves e Neymar volevano qualcosa di geniale per sfottere a loro volte i cori razzisti che ricevono durante le partite – missione compiuta.
Foto a caso di gente a caso.
Dal punto di vista meramente comunicativo, l’idea è stata un successo, testimoniato da milioni di articoli sulla stampa, status, condivisioni, selfie.
Dal punto di vista sociale il “fenomeno” che dura qualche giorno bruciando come trend topic e argomento virale è abbastanza impalpabile.
Oltre ad essere per certi versi insopportabile: sfido chiunque a vedersi la bacheca invasa da amici, conoscenti e vip che s’addentano delle banane senza spazientirsi dopo poche “fotocopie”. Va bene, siamo tutti d’accordo che il razzismo è il male e va estirpato con ironia e cultura, ma che mi frega della tua faccia in primo piano che s’addenta il frutto dell’amor?
Anche lui s'è fatto un selfie.
Senza contare tutti quei personaggi che sfruttano in modo malizioso l’ennesima, fugace moda del momento per ritagliarsi un attimo di notorietà e autopromozione
Siamo sempre lì, alla trasformazione dell’intento “nobile” in pubblicità e, nella sua deriva finale, in una vetrina su quanto noi siamo buoni e sensibili.
Dopo questo slancio umanitario che dura lo spazio di un selfie, che succede?
Archiviato il proverbiale quarto d’ora dove “siamo tutti scimmie” si torna ad essere degli homo più o meno sapiens, più o meno sottilmente e inconsapevolmente razzisti, presumo.

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