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Nymphomaniac
(o meglio, Nymph()maniac) è prima di tutto una grande operazione di
marketing, perfettamente riuscita – se è vero che il successo di
una campagna pubblicitaria si vede anche e soprattutto nella misura
in cui viene criticata, imitata, censurata e/o parodiata.
In
questo Lars Von Trier è un maestro, prima ancora che di cinema: è
un campione di affabulazione, di costruzione d'aspettative. Quello che
viene dopo, sono affari nostri (e dei festival, e dei critici, e
degli intellettuali con ansie da prestazione).
Lui,
la sua parte l'ha già fatta: insinuarci il dubbio, come il serpente
nell'Eden.
Per
cui, puoi scambiare in perfetta buona fede per arte e genio anche un
semplice squadernamento di fatti banali e di sentenze esageratamente
pretenziose in un dialogo senza alcuna credibilità.
Sopra: scene che fanno ridere. |
E'
la magia del cinema. Una materia che l'autore danese padroneggia da
sempre con sprezzo del pericolo e del ridicolo, prassi portata alle
estreme conseguenze con questo 'primo tempo' di Nymphomaniac. Molto
meno scandaloso del previsto e addirittura venato da un'inaspettata, marcata vis comica e satirica, il racconto che la protagonista Joe fa
al maturo Seligman, che l'ha raccolta malconcia in un vicolo, non è
altro che il film stesso. Film il cui senso Von Trier tenta
volutamente di smontare con il controcanto (termine non casuale,
essendo i rimandi musicali parte integrante) dello stesso Seligman,
personaggio curioso e poco credibile, dalla cultura enciclopedica e
dalle ottime e perfettamente azzeccate letture (vedi Poe), un ebreo
ateo adorabile, quasi il danese dovesse farsi perdonare l'infelice
(ma dove? calcolatissima, irresponsabile, idiota, ma di certo non
candida) uscita sulla sua simpatia per Hitler e il suo "capirlo". Ma
Lars è così e chi non lo ha capito (tipo il Festival di Cannes) fa
soltanto il suo gioco. Un gioco irritante, gioiosamente folle,
provocatorio (altro che sesso esplicito!), inquieto e perturbante.
Nel 2014 per vedere del sesso dobbiamo ancora sentir parlare d'amore. Bof. |
Ho
finto con gli aggettivi e riprendo da dove ho smesso ad analizzare il
film: è chiaro che Von Trier, parlando di cose che gli stanno molto
a cuore, al tempo stesso smonta se stesso e la sua creatura quasi a
voler imbeccare ogni possibile chiave di lettura (poetica,
antropologica, musicale, numerologica, matematica, zoologica,
filosofica, paranoica, nichilista). Insomma c'è tutto: il
regista-scrittore si innesca e si disinnesca, espone e si critica da
solo, caso più unico che raro nella storia del cinema.
Che
poi l'operazione possa dirsi riuscita è un altro conto, ed essendo
il primo tassello di un dittico il giudizio è monco. Certo, non
mancano trovate intelligenti condite da un ritmo sostenuto e da
riflessioni non banali su solitudine, abbandono, necessità, vuoto
interiore, squallore e gloria del seguire le pulsioni. Il tutto
rimane forse un po' inerte, in questo romanzo di (de)formazione di
un'anima in pen(a/e), il cui unico rapporto umano degno di tale nome è
con il padre amorevole e affascinante.
La
sequela di amanti e amplessi è abbastanza inerte, e i dettagli shock
possono forse turbare lo spettatore più borghese: l'aver
sottolineato più volte che tutto quello che si vede di esplicito è
frutto di protesi e di lavoro di controfigure professioniste
dell'hard, con gli attori “famosi” ben alla larga dal sesso, è
stata forse l'unica crepa nella gioiosa macchina da guerra
promozionale. Ogni possibile disturbo nella percezione dello
spettatore è disinnescato dall'elaborato gioco di plastica, lattice,
ombre, simulacri e computer grafica: insomma, il brivido manca in una
messa in scena studiatissima. Non che il sesso non funzioni: lo fa.
Vi piacerebbe saperlo? Preparate il "Ma vaff..." |
Ma
è molto più bello ed eloquente l'innocente ed indecente nudo
intravisto della splendida Stacy Martin (la nuova Eva Green?) dei
dettagli su peni, vagine e sperma che ogni tanto fanno capolino a
increspare la piatta routine di “10 uomini al giorno”
dell'insaziabile, vuota e tormentata Joe.
Lo
stesso racconto della Joe “anziana” (la ieratica Charlotte
Gainsbourg) non può che essere messo in dubbio e risultare
esageratamente romanzato e fasullo, cosa che verso la fine Seligman arriva a fare, tra una lettura assurda e l'altra di ciò che
ascolta: “No”, dice lui “è troppo irreale”, e lei di
rimando: “In che modo pensi di trarre il massimo dalla mia storia,
credendoci o non credendoci?”
Ecco,
la stessa domanda che a quel punto è rivolta a noi.
E'
sempre e solo una questione di credere nella storia.
Buon
Nymph()maniac a tutti.
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