Qual
è la quintessenza del cinema d'azione di arti marziali?
La
gioia delle mazzate nei denti, ovvio. Quand'è, quindi, che un
prodotto diventa il migliore della sua categoria? Ad occhio e croce,
quando le mazzate sono talmente tante e ben coreografate da rendere
superfluo tutto il resto.
Questo
era The Raid (2011). Non appena uscito, il film indonesiano del
gallese Gareth Evans è diventato immediatamente un cult: trama poca
o nulla, lo spettacolo del pencak silat, l'arte marziale del suo
protagonista Iko Uwais, un'ora e mezzo di azione senza sosta e
stuntman pazzi che prendevano botte da orbi e volavano giù dalle
scale atterrando di schiena sui balconi. Il pretesto di un assalto di
una squadra della polizia all'edificio di un boss locale si
trasformava in una mattanza a mani nude claustrofobica e vertiginosa.
Insomma:
il futuro del cinema d'azione si è spostato in Indonesia, dopo un
occidente ripulito da sangue e cattiveria e Giappone e Cina/HK
vittime di un funambolismo sterile.
Dopo
il successo in patria e anche all'estero, complice la distribuzione
americana con le musiche di Mike Shinoda, per The Raid era
inevitabile l'arrivo di un sequel, che prende le mosse da un progetto
precedente di Evans, in stand-by perché troppo ambizioso: Berandal,
divenuto dunque il sottotitolo di The Raid 2.
Che
sia un progetto ambizioso si capisce subito. Ambiente criminale e
faide tra clan di razze diverse, scontri generazionali familiari,
tradimenti, poliziotti infiltrati. Roba da John Woo, Johnnie To e
perfino Scorsese. Per fortuna Evans non si sopravvaluta e mantiene
l'azione al centro di tutto. Purtroppo, questo centro traballa molto
perché sottoposto a diverse scosse telluriche: quelle di una trama
abbastanza banale e allungata, di scene superflue e di personaggi
macchiettistici.
Intendiamoci: The Raid 2 impone di credere ad un universo dove le armi da fuoco sono
praticamente bandite e tutto si risolve utilizzando armi bianche e
mani nude. E fin qui va bene. Ma puntare due ore e mezzo di film
sullo stravisto schema del figlio ingrato e arrivista e del
poliziotto sotto copertura è un azzardo. Per non parlare di due
personaggi che spuntano dal nulla (e rimangono nel nulla) troppo
ridicoli per risultare interessanti: Hammer Girl e Baseball Bat Boy –
non hanno nomi – oltre a non essere grandi combattenti sono
veramente troppo sopra le righe per non risultare goffi tentativi di
omaggiare il cinema di altri paesi orientali o Tarantino. Altra
ingenuità, l'incredibile fanservice con le lunghe sequenze con Yayan
Ruhian (il leggendario Mad Dog del primo film), che sebbene siano
belle e spettacolari, poco aggiungono al resto della pellicola e
appesantiscono la durata.
Ciò
detto, mi ricollego all'incipit: le mazzate ci sono, e sono epocali.
Praticamente ogni scena di lotta è da antologia. Tranne le brevi
sequenze mirate solo a destare lo spettatore dalle troppe scene di
raccordo, tutto il resto umilia il cinema d'azione contemporaneo:
dalla mega rissa nel fango in prigione, alla sequenza sull'auto, ai
combattimenti finali contro i due mocciosi antipatici e il braccio
destro del boss cattivo (quest'ultimo il top del film).
Iko
Uwais è in formissima, gli avversari non gli sono da meno. Il
risultato è il miglior cinema d'azione che si sia visto dai tempi
di... The Raid. Se siete disposti a sopportare qualche scena statica
di troppo e una trama per niente originale, avrete di che godere.
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