Sono
uno di quelli che è cresciuto con Dylan Dog.
Nel
1986 avevo appena 4 anni, ma non appena superata la decina, ho
aggirato i divieti genitoriali e mi sono immerso nella collezione
completa dello zio, ricavandone brividi e grandi insegnamenti (anche
letterari).
Da
mesi il dibattito intorno al secondo fumetto più venduto della
Bonelli (e terzo in Italia, dopo Topolino) riguarda l'incombente
restyling orchestrato dal creatore (e alter-ego) dell'indagatore dell'incubo,
Tiziano Sclavi, e dal nuovo curatore da lui fortemente voluto,
Roberto Recchioni.
Come
sempre accade quando si va a toccare un personaggio entrato
nell'immaginario collettivo di un Paese, si è scatenato il
putiferio. Hardcore fans, lettori storici, ma anche acquirenti
occasionali per loro stessa ammissione, hanno puntato il dito contro
molte delle scelte che dovranno traghettare Dylan nella sua nuova
fase (la fase due, appunto).
L'ispettore
Bloch in pensione, Dylan e Groucho alle prese con i pc e i
telefonini, un linguaggio più moderno... molto è stato detto e
scritto (spesso negativamente e a sproposito, dato che su alcune cose
ancora non ci sono dettagli precisi) e questo sposta la questione su
un grande tema: quello del cambiamento.
Dylan,
se ci pensiamo bene, è (editorialmente) quasi un trentenne. Dopo trent'anni di vita e
di onorata attività nelle edicola, avrà pure il diritto di
cambiare, no? In questo senso le reazioni della stragrande
maggioranza (attiva sui social) rispetto al fumetto dell'old boy sono diventate uno
specchio della nostra società: impaurita dal cambiamento,
intransigente sullo status quo, diffidente verso le
novità. Incapace, spesso, di accettare anche solo l'idea di quel
necessario salto nel vuoto che i prodotti creativi devono avere (e
per esteso, anche il mondo del lavoro, della conoscenza e via
dicendo...)
Un personaggio che vive continuamente il presente come Dylan non può pretendere di non veder cambiare il mondo attorno a sè e di adattarsi ad esso. Una perpetua Londra degli anni '80 sarebbe grottesca e ridicola. Le storie prive di un background solido e riconoscibile per i lettori. Per i nostalgici ci sarà una testata appositamente creata (resa o lungimiranza dell'editore? Magari oculata strategia).
Quello
che molti stentano anche a capire (e non so perchè) è che è
impossibile per un'azienda come la Bonelli prendere anche solo
remotamente in considerazione l'idea di vedere le vendite in costante
calo o di chiudere la serie. Non si butta via uno dei migliori
personaggi dei fumetti, e il suo potenziale, per il rifiuto di molti
fan di accettare novità (ma saranno poi molti? O come spesso accade
vale la regola della maggioranza silenziosa?)
Da
lettore che ha abbandonato la testata al numero 200 e che da poco ha
ripreso a leggere, chiedo poche cose a Recchioni e i “suoi”
autori. Che poi coincidono con quanto dichiarato dalla Bonelli: un
ritorno alle atmosfere poco politicamente corrette, più sottili ed
inquietanti. Un Dylan non più predicatorio e bacchettone, schiavo
delle sue peculiarità e malinconico, ma curioso, sensibile,
brillante ed emotivo come è stato nei suoi momenti migliori.
Splatter
e poesia, certo, ma filtrati da quella visione disincantata e ironica
del mondo che riusciva ad alleggerire il brutto del mondo (che non è
il mostro, ma ciò che gli ruota attorno).
Insomma,
tornare al personaggio e al fumetto che ci piace leggere (come, va
detto, spesso ha già sottolineato Recchioni: vedremo se l'operazione
riuscirà!)
Con
buona pace di quelli che pur di non veder cambiare niente
preferiscono un lento e doloroso declino.
Poi,
beh, ovviamente il fumetto più venduto d'Italia è Tex, l'immutabile
per eccellenza. E vende quasi il doppio di Dylan. Fate le vostre
riflessioni... (che io non vorrei suonare ridondante e retorico)
Giuda
ballerino!
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