Se
parlo di James Gray è perchè The Immigrant (da noi
C'era una volta a New York, quindi lo chiamerò sempre The
Immigrant), è l'opera che tanti fan di questo autore hanno
digerito maluccio.
Recap:
Gray, newyorkese di origini ebreo-russe, è il regista
perfetto per avere dei fan cinefilo-autorevoli perchè artista
di nicchia, riluttante al lavoro con le major e comunque
sempre rigoroso, intellettuale ed intelligente. Quindi capirete
perchè, essendo davvero uno dei migliori in circolazione senza avere
un giro grosso di sponsor che urlano come scimmie, può
contare anche su fan intransigenti che stanno più o meno dentro il
senso delle sue opere.
Gangster,
noir, poliziesco, sentimento dostoevskijano: questi finora i
generi esplorati in vent'anni di onorata e onorabile carriera da
questo ex-ragazzo prodigio che ha esordito a 25 anni, nel 1994, con
il superbo Little Odessa che vedeva nel cast gente tipo Tim
Roth e Vanessa Redgrave.
Cosa
rende i film di James Gray tanto speciali? Semplice: la
scrittura che riesce a dare alle opere un grande respiro letterario e
drammatico, nell'accezione migliore e cinematografica del termine, e
una controllatissima messa in scena, quasi geometrica e mai fredda,
che denota un maturo e onesto sguardo d'autore e affascina senza mai
apparire compiaciuta.
Poi
arriva il recentissimo The Immigrant, che, come detto, rischia
di mandare in crisi il sistema.
Primo,
per l'apparenza quasi-kolossal che rinuncia ad una consueta
cornice frugale e spartana. In realtà, Gray massimizza un
budget per niente faraonico per un film in costume sugli anni
'20 (poco più di 15 milioni di dollari, fate voi i debiti
raffronti).
Secondo,
per il temutissimo confronto autoriale con il genere melodramma:
terreno impervio per moltissimi, alcuni dei quali ci hanno fatto
degli scivoloni mica da ridere, è stato visto dai più alla vigilia
come un segnale di rammollimento. Stupide paure preventive,
perchè The Immigrant è Gray al 100% con la sua
poetica declinata in un'altra dimensione.
Terzo,
qualcuno si è “lamentato” del suo eleggere per la prima volta un
personaggio femminile a protagonista assoluto del film. Niente
di preoccupante, anzi, era l'ora. Senza contare che in Two Lovers
c'erano già i segnali di un prossimo film compiuto su una figura di
donna complessa, dopo i tanti uomini fragili e tormentati.
Ma
basta così. The Immigrant è un grande film.
Marion
Cotillard è chiamata ad una intensa e per nulla semplice
interpretazione di Ewa, immigrata polacca nell'America del
1921, dove la speranza di una vita migliore s'infrange contro la
necessità di sopravvivenza.
Non
è la storia in sé che interessa a Gray, tant'è vero che da
subito setta i presupposti per giustificare tutto quello che
succederà, per poi procedere con l'esplosione dei rapporti umani:
Ewa viene separata dalla sorella, messa in quarantena ad Ellis
Island, e da lì parte la sua battaglia contro il mondo per
ricongiungersi a lei. Sorella che, esattamente come Ewa, non
rivedremo più fino alla fine ma evocata ad ogni piè sospinto.
C'è
poi la figura di Bruno, il solito maiuscolo Joaquin
Phoenix, personaggio che cresce con l'andare dei minuti fino ad
un finale che è pura potenza emotiva. Marchio di fabbrica di Gray,
senza per questo risultare ripetitivo o scontato, il personaggio
dell'elegante e irruento pappone truffatore con la coscienza e il
cuore in tumulto è il perfetto essere umano in cui all'autore piace
affondare penna e macchina da presa come un bisturi.
Ewa
è una donna in balia degli eventi ma al tempo stesso indomabile,
quasi sprezzante del suo stesso destino e pur contraddittoria: il suo
carattere e la sua volontà si scontrano con quello che è costretta
a vivere pur di ottenere quello che vuole (la libertà e sua
sorella), ma spesso la espongono anche al rischio di perdere tutto
nel tentativo. Orgoglio, ma anche dignità, che Gray mette in
scena attraverso gli sguardi e le parole secche della Cotillard.
Qui
più che altrove il tema ricorrente nell'autore della religione
prende corpo in modo prepotente: Ewa è credente, è costretta a
degradarsi e sentirsi condannata, eppure è attraverso una
confessione personale che segretamente mette in moto gli eventi che
portano al finale. Bruno, già minato nell'animo, è costretto
a prendere coscienza e vedere lo squallore della propria condizione,
attraverso un amore più profano, certo, ma con un senso di colpa che
lo porta ad una sorta di martirio autoinflitto.
E
poi c'è Orlando-Jeremy Renner, l'illusionista romantico ma
amante del gioco d'azzardo, gentile e di talento ma troppo
“salvifico” per essere vero. Incredibile la sfida di Gray
alla didascalia nella sua prima apparizione; prima levita come un
crocifisso e poi... sconfigge la morte. Personaggio di
difficile gestione, da alcuni percepito come semplicistico e
superfluo, eppure perfetto per dare quel senso di quasi
impercettibile speranza nel deus-ex-machina che deve essere
negata dal destino. Senza contare che smaschera le contraddizioni e
la precarietà intima di Bruno, chiamato a vivere davvero il
suo conflitto invece di limitarsi a recitare e dare ordini a delle
ragazze. Con esiti, come si vedranno, tragici.
Una
grande storia che travalica i suoi stessi difetti e alcune
leggerezze in sede di messa in scena, per un film che sa stregare e
avvolgere grazie alla natura dei suoi personaggi e delle loro
contraddizioni.
James,
non farci aspettare troppo per il prossimo lavoro...
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