ATTENZIONE:
leggere solo se avete visto TUTTA la serie “True Detective”
Non
rovinatevi il finale, gente!
***
Ne
avevo già scritto qui dopo il primo episodio. Sembra passato
pochissimo, e invece siamo già alla fine degli otto episodi della
celebrata serie tv della HBO True Detective.
E
che finale. Come nella migliore tradizione delle serie “culto”
della tv, TD ci saluta con un episodio conclusivo che lascia molti
punti di sospensione e smentisce ogni possibile previsione.
La
prima nota che sento di dover fare è: solo io ho pensato che questo
episodio sia quasi un corpo alieno nella serie e che potrebbe quasi
essere un cortometraggio a sè stante? Diamine, se includiamo anche il
recap iniziale abbiamo: dialoghi che squadernano in modo preciso il
rapporto tra i protagonisti, l'indagine che arriva ad una svolta con
un indizio che non c'entra nulla con le indagini svolte in
precedenza, una velocissima procedura che porta all'individuazione
del colpevole, la caccia al colpevole, lo scontro finale, lo
scioglimento e i saluti. Insomma, un mini-film compiuto.
Certo,
una volta terminato il gioco degli incastri temporali e dei
disvelamenti menzogne raccontate-verità mostrata la serie ha perso
un po' di appeal. Era chiaro che lo scrittore (non uso questo termine
a caso, adesso ci torno) Nic Pizzolatto non era interessato allo
schema del whodunnit e al colpo di scena sul colpevole, ma creare
semplicemente un lungo percorso di (de)formazione e redenzione dei
protagonisti. Lo fa in maniera piuttosto esplicita e incurante degli
stessi misteri che ha fomentato per lunghi tratti negli episodi
precedenti: la gestione di questi ultimi minuti dimostra come
l'autore sia stato posseduto dal demone della “letterarietà” e
molto meno da quello del “genere” di appartenenza, sia esso noir,
poliziesco, horror.
Lovecraft,
Dante, Chambers, la Genesi: Pizzolatto ha voluto lavorare da solo
alle oltre 500 pagine dello script della serie, ci ha infilato
moltissime ossessioni personali, in modo evidente, e ripensando a
True Detective nel suo complesso emerge tutta questa autorialità,
inedita finora in tv, che è sia un punto di forza che un evidente
limite.
Se
TD è infatti molto coeso e coerente, manca forse di qualche finezza
e alla fine le sbavature che un occhio esterno poteva correggere e
sottolineare possono inficiare il risultato globale. I
misteri accennati e abbandonati, le false piste seminate per poi
disinteressarsene, i dettagli scioccanti (e chi si dimentica più la
figlia di Hart che mette in scena uno stupro con le bambole?) senza
alcun seguito... tutti elementi che contribuiscono all'atmosfera
unica, affascinante e anche malsana della serie, certo, ma che
finiscono per lasciare con un po' di amaro in bocca.
Non
si deve rimanere abbagliati dalle prestazioni maiuscole degli attori
e produttori Matthew McConaughey (osannatissimo, e ci sta) e Woody
Harrelson (eccelso, che rischia al solito di finire in secondo piano)
o dalla regia elegante, precisa e avvolgente di Cary Fukunaga: True
Detective è principalmente figlia del suo scrittore, che ha
trasferito gran parte di se stesso in Rust Cohle e Martin Hart, due
caratteri precisi e umanissimi, antitetici ma speculari e bisognosi
l'uno dell'altro. Con un vero, unico, grande, detective.
Non
sorprende quindi la superficiale e sbrigativa trattazione dei
personaggi femminili, che solo con Michelle Monaghan-Maggie trovano
un reale carattere tridimensionale e di un certo spessore, sebbene
spesso bistrattato solo in funzione di far risaltare il lato oscuro
del “regular guy” Martin Hart. Il resto sono bambine abusate,
figlie disfunzionali, prostitute, libertine (sebbene con carattere,
vedi la troppo breve apparizione di Alexandra Daddario) scritte forse
con tratti troppo sommari.
Questo vale anche per il resto dei
personaggi maschili, figure poco attraenti e interessanti perchè mai
davvero dotate di autonomia e vita. I colleghi del dipartimenti, i
capi, i cattivi, i poliziotti che interrogano nel presente Rust e
Martin: tutto viene fagocitato e spazzato via dalla dimensione
archetipica e centripeta dei due protagonisti assoluti che, a scanso
di equivoci, sono trattati talmente bene in sede di scrittura nella
loro parabola da giustificare la visione anche solo per questo.
Insomma,
Pizzolatto ha fatto un ottimo lavoro, ha creduto moltissimo nelle sue
capacità e ha vinto la scommessa: gli si perdonano anche certe
leggerezze che soprattutto sul finale hanno lasciato un po' di
perplessità. Va bene il vortice infernale dantesco in una visione
che è anche metafora dell'esistenza, ma uno showdown cruento e
cartoonesco come quello che abbiamo visto lo poteva scrivere un
ragazzino di 18 anni in pieno delirio pulp. E forse contrasta col tono del resto della serie. Ma ripeto, la visione dell'autore va
rispettata e goduta per quello che è. Persino Rust Cohle, il Michael
Jordan dei figli di puttana, che abbandona alla fine un po' del suo tormento ed
esce a riveder le stelle: “La luce sta vincendo”. Certo, là
fuori ci sono ancora molti stupratori di bambini, persino della
stessa cricca a cui i due stavano dando la caccia.
Ma
True Detective è stata una personale odissea di due uomini alla
ricerca di un senso alla propria esistenza e a quel mondo paludoso
che li circonda, e non un procedural qualsiasi, non un noir
esistenziale, non un'ordalia horror sui serial killer.
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