1961. Il folk non è
ancora un genere che interessa alle major musicali e nel panorama underground newyorkese gli interpreti sgomitano per
emergere, tra esibizioni ad offerta libera, incisioni di gruppo,
dormite sui divani di chi sta meglio, e così via. I fratelli Coen, con A proposito di Davis, dipingono un affresco ben riuscito e agrodolce attraverso una figura
minore di quell'epoca, l'immaginario Llewyn Davis modellato sul
realmente esistente Dave Van Ronk. Perchè a loro piacciono i
perdenti, i tormentati, i complessi: e difficilmente qualcuno sa
ritrarli con amorevole distacco e oggettiva passione come loro.
Un'opera straziante e divertente che traccia realisticamente il
profilo di un talento “non così talento” e lo segue in un breve
tratto della sua sgangherata esistenza senza cadere, nemmeno per un
secondo, nel patetico o nel tranello di finire per tratteggiarlo come
uno a cui tutto va male perchè è “un poverino”.
Llewyn è un personaggio
sfaccettato, indolente, troppo sicuro di sé sul versante artistico
quanto bisognoso di conferme su quello umano. Distratto, arrogante,
disordinato, menefreghista, immaturo, ma anche sensibile, adorabile
per certi versi, eppure spigoloso e poco socievole: un vero e proprio
riccio pronto a chiudersi di fronte a chiunque non sappia riconoscere
il valore della sua persona e della sua arte, non troppo semplice da
scorgere sotto quella scorza.
Che i Coen non vogliano
farcelo amare, e rigettino il meccanismo dello “sfigato che ami in
quanto sfigato”, è chiaro da come ce lo mostrano rapportarsi agli
amici, ai parenti, alle amanti e a più riprese alla delicatissima
responsabilità di essere (forse) padre.
Quindi, quasi ad
equilibrare, ci tirano in mezzo un gatto, Ulisse, che a differenza di
lui sa ritrovare la strada e tornare a casa (vera o simbolica che
sia), ed ha un sosia identico e altrettanto bello, simpatico e
intelligente. Ecco, a me questo filo conduttore del gatto, per quanto
elegante e per niente pretestuoso, non ha intrigato più di un tot.
Il gatto è una facile scappatoia e una facile metafora per riempire
buchi e dare consistenza al personaggio umano. Ma forse dipende dalla
mia sostanziale freddezza verso i gatti: sono sicuro che invece sarà
un elemento apprezzatissimo dalla stragrande maggioranza di pubblico
e critica.
Non è facile comunque
digerire tutto il film, specialmente nella sua parte centrale forse
un po' troppo compiaciuta, quella del viaggio a Chicago con due
improbabili compagni di auto, il vecchio jazzista logorroico e
supponente di John Goodman e il suo taciturno “valletto” Garrett
Hedlund, che pare non essere uscito dall'auto di On the Road. Eppure
anche lì, dopo la sequenza dell'arrivo con quel piede ficcato nella
neve e il tormentato provino con il leggendario produttore Bud
Grossman (ovvero l'iconico F. Murray Abraham), torniamo più che mai
a fare il tifo per Llewyn Davis. Che sarà costretto, forse un po'
ingiustamente, ad abbassare la cresta. E il suo orgoglio gli impedirà
di acciuffare in extremis un'opportunità forse poco stimolante ma
comunque capace di farlo rimanere nel giro.
Una struttura circolare,
quella del film, che si apre e si chiude su una bellissima esecuzione
di “Hang me, oh hang me” da parte di Llewyn, nel piccolo e fumoso
Gaslight Cafè, prima di pagare l'ennesimo prezzo del suo
caratteraccio. Lì, messo a terra e accasciato contro il muro, ci
saluta un Davis che forse ha abdicato la sua arte per un futuro
triste e marinaresco, o forse no. Le nostre strade si dividono,
mentre sappiamo che quelle del folk rock avranno un protagonista
(quello sì, epocale) che abbiamo appena intravisto calcare il palco
dopo il nostro personaggio.
Realizzato in maniera
formalmente impeccabile e con cast ispirato, dal protagonista Oscar
Isaac che canta come non ci fosse un domani alla coppia Carey
Mulligan (tanto scorbutica nel privato quanto delicata nel canto) - Justin
Timberlake, con il solito occhio perfetto e irresistibile per
comprimari e caratteristi, Inside Llewyn Davis è un film che farà
la gioia dei musicofili americanofili, che rimane una visione
piacevolissima per tutti gli appassionati di cinema, ma che, come la
sua narrazione, rimane un po' piegato su se stesso. Però, a uno come
Llewyn Davis, alla fine gli si vuole bene nonostante tutto. Ed è un
miracolo che riesce solo al grande cinema.
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