Dallas Buyers Club è un
buon film. Nell'era in cui sentiamo esaltare opere dalla portata
artistica nulla solo perchè sono emotivamente ricattatorie o ricche
di buone intenzioni, un film onesto e rigoroso, che concede poco o
niente al baraccone retorico sull'HIV, è qualcosa di cui essere
felici.
Supportato
dall'interpretazione di quello che ormai è l'attore più virtuoso
del momento, quel Matthew McConaughey a cui fino a pochi anni fa
sputavo sulle locandine, il film di Jean-Marc Vallée, pur se
romanzato e con qualche imperfezione nella gestione drammatica, è
ben lontano dai toni e dai modi urlati e imploranti di pellicole che
mettono l'esibizione della malattia e della sofferenza davanti a
tutto.
I motivi sono diversi:
innanzitutto la gestazione della storia, durata per ben 20 anni. Lo
sceneggiatore Craig Borten ha intervistato il vero protagonista della
vicenda, Ron Woodroof, pochi giorni prima della sua morte, nel 1992.
Oltre venti ore di fluviale racconto che è stato più volte rivisto
e corretto, proposto e respinto. Adesso, con il copione riscritto
assieme alla co-autrice Melissa Wallack, possiamo dire che l'attesa è
valsa la pena: la sensibilità di Vallée, già autore di pellicole
non fondamentali ma comunque interessanti come C.R.A.Z.Y. e The Young
Victoria, riesce a trasformare anche le inesattezze storiche e le
invenzioni di sana pianta in punti di forza drammatici. Ovvero la
presenza del travestito Rayon, interpretato da Jared Leto con ottima
aderenza, e il contrappunto etico-legale della dottoressa Eve di
Jennifer Garner. Il primo è fondamentale in quanto rappresenta il
cambiamento “in meglio” del protagonista: da texano sbruffone,
omofobico e razzista, dopo aver scoperto di avere addosso la
“malattia dei froci”, Ron dovrà rivedere molte santino non
piace a nessuno) un paladino dei diritti dei diversi, imparerà ad
accettare le differenze e ad essere un po' meno rozzo. Certo, Rayon
sarà suo socio nello “spaccio” di medicine alternative al
praticamente letale AZT somministrato ai sieropositivi, ma Ron
dimostrerà con i suoi modi ruvidi di avere a cuore le sorti del suo
fragile e tossicodipendente amico.
delle sue ottuse
convinzioni, e sebbene non diverrà (e meno male, che il
Un film da vedere, perchè
solido e ben diretto: le interpretazioni sono di certo il suo punto
di forza, con un McConaughey sugli scudi e scheletrico, con
un'intensa carica (auto)distruttiva che si trasforma in coraggio di
vivere, come recita la tagline del film. A Woodroof furono
diagnosticati 30 giorni di vita: visse altri sette anni da allora,
portando avanti una lotta contro un sistema di ignoranza, di
speculazione e di scarsa sensibilità. Non un eroe, perchè la
battaglia fu condotta anche e soprattutto per ragioni personali, ma
una storia che ha un significato profondo da raccontare.
Jared Leto, sebbene molto
bravo, mi è parso un po' sopravvalutato dalla critica, per un lavoro
sul personaggio forse un po' schematico e già visto. Non contano
solo i chili persi: voglio dire, pensiamo al povero Cillian Murphy di
Breakfast on Pluto (un Neil Jordan dimenticato dai più).
Curiosità: il film è
stato girato in soli 25 giorni con un budget contenutissimo di circa
5 milioni di dollari. Nei soli Stai Uniti ne ha per adesso incassati
più di 20 milioni. Scommessa riuscita, dunque, e probabilmente
ancora più premiata negli incassi all'indomani degli Oscar.
Dare to live.
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