Qual
è il modo giusto di approcciarsi ad una pellicola come 12 anni
schiavo?
Miliardi
di recensioni (e/o status, tweet etc.) tutte uguali utilizzano la
dicitura ‘pugno nello stomaco’: che fantasia.
Solomon dice: "BASTA CON 'STI PUGNI NELLO STOMACO!" |
Sono anni ormai che l’asticella del rappresentabile, anche nei film “da Oscar” e/o
di larghissimo consumo, si è alzata. Non dovrebbe sorprendere la
rappresentazione di sofferenze inflitte tramite sanguinolente
pratiche sadiche in un film dove si affronta un periodo dove venivano inflitte punizioni tramite pratiche sadiche.
E non venite a dire che tutti i film potenzialmente
sono di largo consumo, perchè solo pochissimi arrivano per le più
svariate ragioni al pubblico mondiale, e ancor meno a premi importanti.
Quindi,
per favore, non recitiamo noi spettatori la parte della sciura
borghesuccia di mezza età che scopre la schiavitù americana
dell’Ottocento e gli orrori della violenza e dell’omicidio
disumano assistendo a qualche esecuzione e tortura assortite, a base
di fruste e impiccagioni. Perché il passo, dal buonismo stantio
all’ipocrisia molesta, è breve. Se per voi è un pugno nello
stomaco quello che si vede in 12 anni schiavo (e indubbiamente,
comunque, è ben rappresentato), allora non aprite mai un libro di
storia dedicato approfonditamente alle condizioni di vita degli
schiavi neri d’America, casomai non vi venisse un infarto.
"Farfallina..." (ma Fassbender non capisce) |
Parliamo
di cinema, e non facciamola lunga: la storia è reale, basata sulle
memorie del vero Solomon Northup, cittadino di colore nato libero nello stato di New York e
violinista nell’America schiavista di metà Ottocento: tradito da due loschi figuri, sarà separato dalla famiglia e
venduto come bestia da soma a proprietari terrieri del sud. Storia portata in scena con competenza: Steve McQueen è regista purosangue e sa benissimo come affrontare i
momenti patetici, quelli violenti, quelli lirici senza mai eccedere.
Difficile trovare una scelta registica fuori posto o un qualcosa di
stucchevole e tirato per le lunghe. In questo 12 anni schiavo riesce
a coniugare benissimo un’autorialità mai compiaciuta con le
esigenze da spettacolo hollywoodiano, senza mai cadere nell’affresco
inerte o indifferente di un Ron Howard a caso.
Come direttore
d’attori, McQueen sa dare spazio ad interpretazioni mai sopra la
soglia del tollerabile, anche nella loro eccessività (e mi riferisco in
particolare al feticcio Fassbender, che ruba in ogni occasione la scena
con il suo scatenato schiavista laido, viscido e perfettamente a
posto con la coscienza). Il miracolo della pellicola è di certo la Patsey di Lupita Nyong'o, un personaggio che, indipendentemente
dall’attrice, ha una portata drammatica talmente forte scaturita dalla penna di John Ridley (il quale adatta l'autobiografia di Northup) che porta in modo automatico a glorificare anche l’interprete. Non fraintendetemi: un’attrice
con un milligrammo in meno dell’intensità di Lupita avrebbe
mandato le cose a monte. Ma quello di Patsey è il tipo di character
che la sceneggiatura, in partenza, tratteggia come oggetto della
totale pietas e dell’empatia dello spettatore. Non c’è nulla di
male ad ammetterlo e a lasciarsi soggiogare da questo metodo di
lavoro, che peraltro funziona splendidamente.
Eccolo, il Lincoln-wannabe "risolvo-tutto-io" |
Ma è, ad esempio, stucchevole la comparsata di Brad Pitt nel ruolo, piatto e inerte,
del buon cittadino homo faber giramondo di larghe vedute, che sarà
il deus ex machina attraverso il quale, dopo una ‘semplice’
discussione, Solomon riacquisterà la sospirata libertà dopo i 12
anni del titolo. Ecco, Pitt è la quint’essenza della star
generosamente prepotente in ruolo inutile (Ehi! L’ho prodotto! È
merito mio! Ci sono anch’io!) che certifica la straniante presenza
di attori noti che non hanno ruoli ma dei cameo, che – anche per la
natura abbastanza archetipica per non dire schematica dei personaggi
affidati – non brillano affatto, anzi rappresentano un inciampo,
quasi una zavorra al naturale scorrere del film. Ciao Paul Giamatti, ciao Paul Dano.
Se ricevi più complimenti di me, t'ammazzo! |
Infine,
nota di merito al protagonista Chiwetel Eijofor che rischia di essere
il meno celebrato, pur portando il peso di tutta la pellicola sulle
spalle: grande presenza scenica, interpretazione calibrata e mai
patetica, perfetta nel rispecchiare il carattere e la volontà del
suo personaggio attraverso gesti, sguardi e toni di voce, anche negli aspetti più umanamente individualisti.
In
definitiva, 12 anni schiavo è un film da vedere, ben al di sopra
della retorica a cui spesso certa tipologia di cinema ci ha abituati.
Non è certamente l’opera migliore di McQueen, tutt’altro, ma
un’ottima prova di personalità che non si lascia imbrigliare. Sul
valore assoluto della pellicola come dramma in costume, forse,
qualche perplessità è legittima, ma è uno spettacolo che vale il
biglietto.
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