Da Billings, Montana a
Lincoln, Nebraska: e nessuno riuscirà a fermarlo. Chi? Ma il vecchio
Woody Grant, nome classico scolpito nella roccia come i tratti del
suo interprete, quel Bruce Dern reduce da cento battaglie da faccia
cult dei seventies. Dirige Alexander Payne, campione del cinema
satirico-intelligente con star (Giamatti, Nicholson, Clooney...) che si
finge indie, stavolta non sceneggiatore (una mossa molto umile,
essendo lui vincitore di due Oscar per la scrittura...) ma coadiuvato
dalla penna di Bob Wilson.
Ma dicevo, da Billings a
Lincoln: un viaggio attraverso tre stati, da oltre 700 chilometri,
che l'anziano testardo è disposto a fare anche a piedi perchè crede
di aver vinto un milione di dollari, come recita un volantino che gli
hanno spedito. E che invece è il classico espediente per raggirare
gli anziani, e spillare soldi attraverso un abbonamento. Ma chi se ne
frega: lo spunto è labile, narrativamente, ma Woody ci sta
aggrappato con le unghie e con i denti come solo vecchi e bambini
sanno fare, e a niente valgono le bonarie, pazienti e sagge parole
dei familiari per farlo desistere. Cocciuto come un mulo, il vecchio
è disposto a mollare casa, moglie e due figli (grandi, però) e
crepare facendosi a piedi l'autostrada. Lo vediamo fin dall'apertura,
questo suo simbolico gesto, che ce lo presenta come chiaramente quasi
del tutto partito di testa.
Attenzione all'analisi banale che poi è
la tipologia del film: tutta la pellicola è un viaggio non soltanto
fisico, ma anche e soprattutto metaforico, attraverso il quale
conosceremo sempre meglio questo scorbutico personaggio sulla soglia
della demenza senile. La cosa buona è che Woody-Dern non fagocita tutto, ma
lascia spazio alla sua controparte, ovvero il figlio David (Will
Forte) triste, sensibile e generoso. A rischio fallimento
esistenziale, tale e quale a quello del padre.
Un padre (che poi, padre!
Aspettate di sentire l'aneddoto sul concepimento della prole...) che
genitore non è mai stato davvero: assente, alcolizzato cronico,
rozzo, taciturno, sostanzialmente egoista. Merita tutta la gentilezza
e i gesti d’amore che gli vengono riservati dal tenero David?
Payne e Wilson rimangono
vaghi, ma la loro posizione è evidente: ci mostra dei figli comunque
amorevoli (quindi, presumiamo, mai maltrattati o vittime di torti e
traumi), una moglie brontolona ma in fondo protettiva e comprensiva
nei suoi confronti, una storia familiare triste alle sue stesse
spalle… Woody è un uomo che non riesce a rievocare ricordi felici neppure nella
casa della sua infanzia, ma soltanto l’eco delle cinghiate che buscava se osava entrare nelle stanze dei genitori. Che cosa ci dice questo? Il
pregio degli autori è di non mettere mai in primo piano o in
competizione dettagli simili con il profilo sostanzialmente ambiguo
dell’uomo al centro degli eventi.
Se mai, ad emergere è la
buffa e tragica meschinità degli ex concittadini di Woody, alcuni
sinceramente felici per lui, ma altri prontissimi ad approfittarsi
della fantomatica fortuna vinta dall’uomo – e ovviamente i primi
in questo caso sono alcuni dei familiari, gli stessi che non hanno
esitato ad approfittarsi anni addietro dell’incapacità di Woody di
dire di no alle richieste di favori e/o di aiuto.
Curiosa poi la figura
dell’ex amico-socio-rivale Ed (uno Stacy Keach azzeccatissimo, che
canta pure Elvis al karaoke!) emblematico nel rappresentare l’animo
più oscuro, viscido e finto-vittimista delle persone messe di fronte
all’occasione che fa l’uomo… millantatore di crediti.
Le colpe dei padri
ricadono sui figli, senza rancori (?): David è cresciuto insicuro, è
moderatamente depresso, non ha particolari aspirazioni me è gentile
e amorevole. Il fratello maggiore è più indipendente e realizzato,
più pratico e meno sentimentale, ma non per questo meno attaccato
alla famiglia. Payne, fortunatamente, evita il registro banale e
abusato del conflitto familiare e mette in scena una famiglia
“normale” (si fa per dire) dove non c’è costante tensione e
non si parla per frasi fatte e urlate. Molti sceneggiatori dovrebbero
prendere nota dal copione orchestrato da Wilson. Il quale opta per un
registro rilassato, sardonico, un umorismo che fonda le sue gag più
sull’assurdità degli eventi e la goffaggine del vecchio protagonista (la dentiera perduta in mezzo ai binari, la cocciutaggine che non gli fa sentire ragioni, il non-dialogo con il
resto del mondo) che su battute studiate o situazioni strumentali.
Tutto fila liscio, tra quadretti irresistibili, vedi i cugini
buzzurri e ignoranti come capre, che parlano solo di motori, come però
fanno poi in modo demente anche i loro vecchi, riuniti a fissare
intontiti il football in tv.
L’incedere della
demenza senile di Woody gli fa meritare la concessione delle
attenuanti generiche e il perdono finale? È una domanda etica che
spunta naturale. La risposta è sospesa e spetta a noi.
Per il resto, Nebraska è un film che merita
(soltanto) la candidatura all’Oscar, perché ben scritto e meglio
diretto: ma l'insieme risulta forse un po’ troppo costruito per
coinvolgere – e soprattutto commuovere – davvero fino in fondo.
Ci si diverte, si ghigna amaramente, si assiste in punta di piedi
all’ultimo (o penultimo?) atto di una vita forse buttata, e alla
sua misera (anzi, nulla) eredità. Nebraska è un film che deve
essere visto, perchè è senza dubbio uno dei migliori della stagione:
starà poi alla sensibilità di ognuno stabilire se la statura
tragicomica del suo protagonista meriti o meno le sperticate lodi che
molti gli tributano.
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